Un
capolavoro rimasto in una valigia. Una figlia che lo
riscopre per caso e Suite Francese improvvisamente sulla bocca di tutti. Come uno schiaffo al nazismo. Mi ci sono
avvicinato quando al cinema arrivava il film: lieve,
di un bello che non fa rumore. Mentre il romanzo si articola per
racconti, la
pellicola si concentra su uno dei pochi momenti in cui puoi vedere i
protagonisti quasi felici: la campagna francese, l'illusoria quiete,
tempo d'amore. Ma questo Suite Francese è l'ultimo dei tre tempi che
il lettore ha già sperimentato, eppure non è solo quello. In un'ora
e mezza sanno trovare spazio trame amorose, sottotrame spionistiche e
alcune delle figure marginali che erano
contemplate nei capitoli che precedevano quello monografico sulla
dimezzata famiglia Angellier. Ovunque, l'eleganza, la pudicizia, la discrezione. Lo sguardo benevolo sulla guerra che, sono certo, non avrebbe reso
fastidiosa all'autrice la licenza poetica dello sceneggiatore: la suite
incompiuta di lei, ebrea, paragonata alla suite incompiuta di Bruno,
nazista. Saul Dibb, dopo The Duchess, torna alla
regia – e al dramma storico – e questa volta è più abile nel
dare voce ai personaggi e ai loro silenzi, anziché al gusto di una Knightley che, in quell'occasione, i cultori della
moda avevano amato e gli spettatori insensibili a nastri e cappellini
assai meno. Suite Francese, delicato e laconico come i suoi
appasionati personaggi, non è il polpettone che chi cerca singhiozzi
si aspetta. Controllato, alla maniera dei britannici, ha questi
Michelle Williams e Matthias Shoenaerst, splendidi, che si
corteggiano come col linguaggio dei segni. Puntuale e oroglioso, pensa più alla
coerenza dell'operazione che ai nostri dotti lacrimali e, anche se
non un'autentica trasposizione, con tutte le sue variazioni sul tema, si rivela un sentito omaggio, una vendetta. Una specie di tardiva vittoria. (7)
Poltergeist
non è un titolo familiare a chi è della mia generazione. Se l'ho visto – e non so dirvelo con
certezza, perché ho in testa una compilation di scene famose che
forse avevo occhieggiato nel reale lungometraggio, forse in
Scary Movie 2 – non l'ho venerato. Questo remake di dubbia utlità non sarà il peggiore horror che in estati
in cerca di vani brividi passeranno dalle nostre sale. Scorre e ripropone con autoironia le sequenze cult, viaggiando
maggiormente dalle parti del cinema fantastico che di quello che
dovrebbe farci strizza. La storie come tante dei
Bowen è al centro di un horror da bollino verde, dunque, che non dispiacerà
alle famiglie. Si scontra con
quello che pare una specie di capolavoro, ma con così tanto candore
– e leggerezza – che con questo horror buono dentro, alla fine,
non puoi essere cattivo. Si accontenta dell'essenziale e, poco
dark e con effetti speciali rigorosamente al computer, con il suo
cast non di primissima scelta, è una visione carina e senza pretese,
con presenze poco demoniache e, al contrario, angioletti di pargoli,
tra cui spicca il bravo Kyle Catlett – che quale anno fa o solo il
mese scorso? - è stato T.S Pivet per Jeunet. Si prende come
modello più la storia firmata trent'anni fa da Spielberg che la cupezza del prodotto di Hooper:
i bambini sono in pericolo ma si sa che non succederà loro niente di
grave; il lieto fine arriverà; la casa è infestata, ma con il
mercato che langue, tanto, sai quante ne trovi all'ombra dei tralicci
dell'alta tensione. (5,5)
Qualcuno
dice che è il primo amore che non si scorda, ma Claire ha sempre
avuto in testa Laura, sua migliore amica dai tempi dell'asilo. E' per
questo che quando muore, si prende
una pausa dal lavoro e si chiude in casa, preda di un dolore
incomprensibile ai cuori altrui. Quando Claire, ospite non invitata,
becca l'inconsolabile vedovo a indossare i vestiti della moglie
defunta reagisce prima con la ragionevole confusione, poi con la
curiosità che solo le donne hanno. Perché David sente il bisogno di vestirsi come la Laura che hanno entrambi amato? Omossesualità taciuta o
un modo per superare il lutto? Una nuova amica potrebbe sembrare l'Hitchcock più celebre o un
Almodòvar in crisi di identità; un noir sui disturbi della
personalità oppure un'esuberante racconto sopra le righe. Non è né
l'una né l'altra cosa, o forse entrambe. Come lo
sconsolato David che, una parrucca bionda e i tacchi, diventa la
querula Virginia; sostituto perfetto della migliore amica e dell'anima gemella. Una fuga dalla realtà, un compromesso,
quando per dire addio c'è tempo e l'atto di guardarsi dentro
– adesso che si è accasati –
crea tragicommedie. Una nuova amica ha i meccanismi
del thriller psicologico, la brillantezza della migliore commedia
sofisticata e l'indefinito erotismo di una drammatica indagine sulle
cose che più sfuggono e affascinano:
la sessualità, il desiderio. Ma altro non è che opera del bravissimo Ozon. Dunque l'eleganza – e l'ambiguità, e una regia
impeccabile, e personaggi cesellati con la cura che avrebbe
un analista - è compresa nel
pacchetto. Non ci sono dissonanze, solo una credibilità forte, e non
ha sbavature il trucco di questo Romain Duris che recita en travesti, mentre la seducente Anais
Demoustier gioca a fingersi sua amica, amante e perfino rivale, nella sequenza immaginata in cui Duris, sotto la doccia,
tocca il marito di lei. Con il cervello e l'anima che litigano, le
membra che cercano un inammissibile tipo di abbraccio e i guardaroba,
invece, che preferirebbero l'altra parte – quella sbagliata – del negozio di abbigliamento all'angolo. (7,5)
Lui, muratore, conosce
lei, annoiata figlia unica di una coppia borghese. Partono col
piede sbagliato: può da una lotta corpo a corpo nascere la
scintilla? Lui, che è segretamente romantico, segue perciò lei, che è un
pezzo di ghiaccio, a un campo di addestramento: le ragazze di oggi sognano di entrare
nell'esercito. Così, tra una corsa a ostacoli e la levataccia al
mattino, vivere tutt'uno con l'ambiente e scoprirsi più alti di una
spanna. Questa, in parole semplici, la trama del semplice Les
Combattans, che da noi si becca un titolo anglofono e il sottotitolo Addestramento di vita.
Opera prima rinfrescante e dotata di spunti mai sfiorati prima dalla
romcom tradizionale, forse non meritava tutti i premi che ha vinto qui e
lì – per nulla impegnata, non abbastanza chic da essere
sopravvalutata -, ma ha dialoghi aciduli, due protagonisti abbastanza
bislacchi da risultare memorabili e un'aria tutt'altro che
perfettina. Eccolo, il suo segreto, insieme a un romanticismo che
meno romantico non si può e alla giunonica Adèle Haenel,
divertentissima e adorabile nella sua impassibilità di soldato fatto
e finito (e poi, diciamolo, con “quella sua maglietta fina” tutta
bagnata sta benissimo). Battute mirate, colonna sonora che gasa e un epilogo ahimè un
po' così - tu chiamalo sospeso, io inconcludente –
anticipato da una ansiogena scena da survival horror. Sono
abituato alla commedia francese che sa di roselline di campo, Chanel
n°5 e altri luoghi comuni, ma anche questa – che odora di napalm
al mattino – non è mica male. (7)
Una
studentessa incontra un cowboy: è colpo di fulmine. Un novantenne,
nel frattempo, prende in pieno un guardrail: il suo, invece, è colpo
di sonno. Una storia che nasce e una che finisce si incrociano
nell'ennesima trasposizione di Nicholas Sparks.La
risposta è nelle stelle però
non funziona, e lo dico da spettatore saltuariamente tollerante al
suo saccarosio che, senza pregiudizio, si è sorbito queste due ore –
tante – in compagnia di una vicenda doppio strato – da un lato la
gioventù oggi, dall'altro il matrimonio ieri, sull'abusato sfondo
della guerra. Young adult più melò: un polpettone alla Rai Uno
sconsigliato agli insofferenti cronici che tra scontatezze, morti
tragiche che latitano – Sparks, qui non uccidi nessuno?-
e dialoghi tremendi sembra la casa terremotata delle fiabe coi
mattoncini del meglio di The
Notebook e
del peggio di The
Last Song.
E' che più di uno Sparks all'anno non si tollera e che quest'anno ho
già visto l'accettabile The
Best of me,
o che questo film è prolisso e dolciastro da non credere? Ma occhio
a Britt Roberts – io l'ho già adocchiata e sono un suo stalker
convinto – e a Scott Eastwood, che dalla sua ha un padre leggendario e una faccia straordinaria. Mistero le
recensioni, a sorpresa, positive. Mistero ancora più misterioso il
titolo italiano: penserei a una strizzata d'occhio aColpa
delle stelle,
se non fosse che il romanzo – con il titolo uguale – ha ormai
qualche anno. Al massimo, tra buoi, cavalli e vaccate varie, alcune
perdonabili e altre no, inThe
Longest Ridela
risposta agognata sarà nelle stalle?
(5-)
Dopo
il buon Starbuck – paradossale storia di un donatore di
sperma che si scopre padre di un migliaio di figli sparsi per il
mondo – e il remake americano che avevo evitato, immaginandolo
uguale all'originale, il canadese Ken Scott torna alla commedia a
stelle e strisce: rumorosa, volgarotta, canonica, simpatica. Piacevole abbastanza. Si ridacchia, infatti, nel seguire
tre perdenti – un padre assente, un venticinquenne con la testa tra
le nuvole, un anziano che vorrebbe divorziare – e il tentativo
rocambolesco di siglare un vantagioso accordo, anche se la spietata Sienna Miller trama loro conto. Si vola a Berlino nella
stagione clou e si pensa alla famiglia lontana, alla prima volta, alla
giovinezza persa. L'avventura europea di tre che hanno probabilmente
visto troppe volte Jerry Maguire – e American
Pie – nel suo piccolo sembra funzionare, soprattutto grazie a
un cast calibratissimo, con un comprimario come Nick Frost, grasso
campione della risata grassa. Vince Vaughn e i suoi soliti ruoli; il
due volte candidato all'Oscar Tom Wilkinson, che ha la leggerezza dei
giovani; Dave Franco, fratello minore di James, che ci meraviglia con
tempi comici notevoli, la timidezza dei nerd e la sbadataggine che
lui, belloccio, di certo non conosce in prima persona. Affidati a
lui, tra visite ai glory hole e posizioni del kamasutra non meglio
idenficate, i momenti in cui si ride, non si pensa a niente e
svanisce così, magicamente, l'ansia da Estiva. (6)