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Mrs. Dalloway – Virginia Woolf (estratto)

Creato il 28 febbraio 2014 da Maxscorda @MaxScorda

28 febbraio 2014 Lascia un commento

"Ecco che cosa significa essere giovani" meditava Peter Walsh, passando oltre quei due. Farsi una scenata (la povera giovane pareva proprio disperata, a mezzo del mattino). "Ma che cosa sarà successo" egli si domandò; "che cosa le avrà detto quel giovanotto col soprabito, per ridurla in quello stato? In che razza d’impicci si saranno cacciati, perché tutt’e due abbiano una faccia così stravolta, con questo bel mattino d’estate?" Ciò che più lo divertiva al ritorno in Inghilterra, dopo cinque anni d’assenza, era l’aspetto delle cose; i primi giorni almeno, apparivano nuove, inusitate: innamorati che si bisticciavano sotto un albero; e la vita quotidiana dei parchi. Mai Londra gli era sembrata tanto incantevole: la dolcezza delle lontananze, la ricchezza, tutta quella vegetazione; e il vivere civile, dopo l’India, egli pensava camminando sull’erba. Indubbiamente quella suscettibilità alle impressioni era stata la sua rovina. Alla sua età egli subiva ancora, come un giovanotto, magari come una ragazza, quelle alternative d’umore: giornate buone, giornate cattive, senza ragione alcuna; un bel visino lo rendeva felice, la vista di una trasandata zitella gli dava immediatamente ai nervi. Dopo l’India era naturale che s’innamorasse di ogni donna che gli capitava tra i piedi. Erano così fresche, e anche le più povere vestivano sicuramente meglio che cinque anni fa; agli occhi suoi, mai la moda aveva donato tanto alle donne. I lunghi mantelli neri, la sveltezza e l’eleganza; e poi la deliziosa, e a quanto pareva generale, abitudine di dipingersi. Tutte le donne, anche le più rispettabili, avevano una rosa sulle gote, labbra come scolpite e riccioli di un nero d’inchiostro di china. Le minime cose miravano a un effetto artistico; era certo che si fosse verificata una rivoluzione. Chissà che cosa ne pensava la gioventù, si domandava Peter Walsh. Comunque quei cinque anni – dal 1918 al 1923 – dovevano aver avuto una grande importanza.

La gente aveva un aspetto diverso. I giornali sembravano cambiati. Ora, per esempio, c’era un tale che scriveva in un rispettabilissimo settimanale un articolo in cui si parlava senza tante cerimonie di gabinetti di decenza.
Chi si sarebbe mai sognato cose simili dieci anni prima – parlare apertamente di gabinetto di decenza in una rivista rispettabile! E che cos’era quel tirar fuori un bastoncino di rosso, o il piumino della cipria, e truccarsi "coram populo"? A bordo del piroscafo sul quale egli era tornato in Inghilterra c’era tutta una combriccola di giovanotti e ragazzette (ricordava in particolar modo una Betty e una Bertie) che amoreggiavano apertamente; e la vecchia mamma se ne stava là seduta a guardarli lavorando a maglia, come se niente fosse. Ogni tanto la figlia si fermava e si incipriava il nasino in presenza di tutti. E non erano mica fidanzati! Se la spassavano soltanto, senza far tragedie né da una parte né dall’altra. Un peperino, quella Betty Vattelappesca, ma di buona razza. A trent’anni sarebbe stata un’ottima moglie; avrebbe sposato quando garbava a lei, forse un uomo ricco, e avrebbe avuto una gran casa nei dintorni di Manchester. Ma chi era mai che aveva fatto così? si domandò Peter, svoltando nel Broad Walk. Che aveva sposato un uomo ricco e viveva in una gran casa nei dintorni di Manchester? Una persona che recentemente gli aveva scritto una lunga e affettuosa lettera, in cui si parlava di "ortensie azzurre"?
La vista di certe ortensie azzurre le aveva rammentato Peter Walsh e i tempi passati.
Sally Seton, sicuro! Era, Sally, l’ultima persona al mondo dalla quale ci si sarebbe aspettato che sposasse un uomo danaroso e andasse ad abitare in una gran casa vicino a Manchester, la scatenata, l’audace, la romantica Sally!
Eppure di tutta l’antica combriccola degli amici di Clarissa – i Whitbread, i Kindersley, i Cunningham, i Kinlock-Jones – Sally era probabilmente la migliore. In ogni modo, cercava sempre di prender le cose per il verso giusto. Non aveva visto Hugh Whitbread – l’impareggiabile Hugh – sotto la luce esatta, quando Clarissa e gli altri erano ai suoi piedi?
Peter la sentiva ancora dire: "I Whitbread? chi sono i Whitbread?
Mercanti di carbone. Rispettabili commercianti". Per ragioni sue particolari, Sally detestava Hugh. Non pensava che al suo bell’aspetto, ella diceva. Avrebbe dovuto nascere duca. Certamente avrebbe finito per sposare una principessa di Casa Reale. Ed era ovvio che Hugh aveva dell’aristocrazia inglese il più straordinario, il più naturale, il più alto rispetto che Peter avesse mai incontrato in essere umano. Persino Clarissa era costretta a riconoscerlo. Ma poi, era tanto simpatico, tanto altruista – aveva rinunciato alla caccia per far piacere alla vecchia madre, si ricordava della festa delle sue zie, e via dicendo.
Sally, bisognava riconoscerlo, vedeva oltre tutte quelle prerogative.
Particolarmente era rimasta impressa a Peter una certa discussione, una domenica mattina a Bourton, sull’emancipazione della donna (quel soggetto antidiluviano): a Sally era saltata improvvisamente la mosca al naso, aveva preso fuoco, e detto chiaro e tondo a Hugh che egli rappresentava tutto ciò che v’era di più odioso nella classe media inglese. Gli disse che le condizioni di quelle povere ragazze di Piccadilly le aveva sulla coscienza lui. Hugh, il perfetto gentiluomo, povero Hugh! mai s’era visto uomo più scandalizzato al mondo! Sally confessò in seguito d’averlo fatto apposta (avevano l’abitudine di andare insieme nell’orto, e confrontare le osservazioni che annotavano). "Non ha letto nulla, non pensa nulla, non sente nulla" ancora gli pareva di sentirla, con quella voce enfatica che si sentiva un miglio lontano. C’era più vita in un garzone di stalla che in Hugh; era un perfetto esemplare del tipo formato dalle università, diceva Sally; non c’era che l’Inghilterra, per creare un prodotto simile. Il suo sprezzo non aveva limiti; per ragioni sue particolari ella nutriva verso di lui un segreto rancore. C’era stato qualcosa – Peter non ricordava più – nel salottino degli uomini. Hugh l’aveva ingiuriata – o baciata? Incredibile!
Naturalmente, nessuno avrebbe creduto a un’accusa contro Hugh. E com’era possibile? Baciare Sally nel salottino! Si fosse trattato d’una qualche Onorevole Edith, d’una Lady Violet, forse; ma non quella pezzente di Sally, senza un soldo, con un padre o una madre che giocavano a Montecarlo. Fra tanti giovani che Peter aveva conosciuto Hugh era il più snob, il più cerimonioso – no, non si sarebbe mai abbassato; era troppo pieno di sé, in quanto a questo. Un domestico di grande casata, ecco il paragone che calzava; qualcuno che vi seguiva alle costole portandovi la valigia, al quale potevate affidare un telegramma da spedire; un individuo indispensabile alle padrone di casa. E aveva trovato quel che faceva per lui, sposando l’Onorevole Evelyn, ottenendo un posticino a Corte, dove custodiva le cantine reali o lustrava le imperiali fibbie da scarpe e si pavoneggiava in brache al ginocchio e jabot di merletto. Com’è spietata la vita! Un posticino a Corte! Aveva sposato quella gran dama ch’era l’Onorevole Evelyn; dovevano abitare in quei paraggi, pensava Peter, guardando le pompose case con la vista sul parco; una volta aveva pranzato là, in un appartamento dove, come in tutto quello che apparteneva a Hugh, si trovava qualcosa che non c’era in nessun’altra casa, non fossero che certi armadi per biancheria. E bisognava per forza andarli a vedere, e perdere tempo a prosternarsi in ammirazione di tante meraviglie: armadi per biancheria, federe per guanciali, vecchi mobili di quercia, quadri che Hugh aveva comprato per un pezzo di pane. Poi, spesse volte la signora svelava l’arcano. Era una di quelle donnine oscure con un musetto da topo, che ammirano gli uomini atletici. Passava inosservata. E poi, di punto in bianco, le usciva di bocca qualcosa che nessuno s’aspettava – una parola mordace. Poteva darsi che serbasse gli ultimi resti delle grandi maniere. Le stufe a carbone, per esempio, ella non le sopportava… appesantivano l’aria. E così vivevano, coi loro armadi per biancheria e i loro quadri d’autore e le loro federe guarnite di merletto vero, con cinque o diecimila sterline di rendita, presumibilmente, mentre lui, Peter, che aveva due anni più di Hugh, ancora doveva raccomandarsi a destra e a sinistra per trovare un posto.
A cinquantatré anni avrebbe dovuto andare a ossequiarli, perché gli trovassero un posto da segretario in un ufficio, o delle ripetizioni di latino per qualche ragazzino, un impiego, insomma, agli ordini di qualche alto papavero, che gli rendesse almeno cinquecento sterline l’anno; poiché anche contando sulla sua pensione, se sposava Daisy, non potevano tirare avanti con meno. Whitbread lo poteva certamente aiutare, oppure Dalloway.
Poco gli importava di riverire Dalloway, il quale era un bravo ragazzo, di vedute un po’ limitate, di cervello non troppo fino, è vero; bravo ragazzo, però. Comunque agisse, restava sempre il medesimo individuo positivo, di buon senso; senza un briciolo di. fantasia, senza la minima scintilla di genialità, ma con l’indiscutibile onestà del suo tipo. Avrebbe dovuto fare il gentiluomo di campagna – in politica era sciupato. All’aria aperta, con cani e cavalli, lì si trovava nel suo ambiente. Come s’era reso utile, per esempio, la volta che quel grosso cane irsuto di Clarissa era rimasto preso in una trappola e aveva avuto una zampa mezza lacerata; e Clarissa era svenuta; Dalloway aveva pensato a tutto, preparato le stecche, fasciato la zampa e sgridato a dovere Clarissa. Era per questo che egli le andava a genio, forse: era l’uomo che ci voleva per lei. "Andiamo, cara, non fate la sciocca. Reggete qua – andate a prendermi quella roba…" E intanto non cessava di parlare col cane come se fosse un essere umano.
Ma come era mai possibile ch’ella potesse ingoiare tutte quelle fandonie sulla poesia? Come poteva lasciarlo perorare su Shakespeare? Grave, solenne, Richard Dalloway saliva in cattedra, e dichiarava che un uomo che si rispetti non poteva leggere i sonetti di Shakespeare, che sarebbe stato come origliare a una porta (a parte ciò, rapporti di quel genere non godevano della sua approvazione). Un uomo che si rispetti non doveva permettere alla propria moglie di andare a far visita alla sorella della sua prima moglie. Incredibile! L’unico modo per farlo tacere era bombardarlo di mandorle zuccherate, come s’era fatto a tavola. Eppure Clarissa mandava giù tutto; e trovava che Richard era la lealtà in persona. Dio sa se lei non lo stimava la personalità più spiccata che avesse mai conosciuto! Ciò costituiva uno dei legami che univano Peter a Sally. C’era un orticello dove solevano passeggiare assieme, un luogo recintato, con cespi di rosa e cavolfiori giganti – egli rivedeva Sally che strappava una rosa, e si fermava per estasiarsi della bellezza delle foglie di cavolo al chiaro di luna (straordinario, quanto nitido gli tornava alla mente tutto ciò, cose da anni sepolte nella memoria), e intanto lo implorava, mezzo ridendo, naturalmente, di portarsi via Clarissa, di salvarla da tutti gli Hugh e i Dalloway e gli altri "perfetti gentiluomini", che avrebbero "soffocato l’anima sua" (in quei giorni Sally riempiva quinterni su quinterni di versi), e non avrebbero fatto di lei altro che una padrona di casa, incoraggiandone la mondanità. Però bisognava esser giusti con Clarissa. In tutti i casi ella non avrebbe mai sposato Hugh. Aveva un concetto ben chiaro e preciso di ciò che voleva. Le sue emozioni erano tutte a fior di pelle; sotto sotto, ella era assai fine, assai miglior giudice di caratteri che non Sally, per esempio, e con ciò, interamente donna. E possedeva quel dono straordinario, quel dono tutto femminile, di crearsi un mondo suo particolare ovunque si trovasse. Ecco, entrava in una stanza; si fermava tante volte egli l’aveva osservata – sulla soglia della porta, attorniata da tant’altra gente. Ebbene, era Clarissa che colpiva; non che fosse una donna fatale, non era nemmeno bella, non aveva nulla di originale, non diceva nulla di particolarmente intelligente. Eppure era là, ecco; era là. No, no, no! Non era più innamorato di lei. Ma dopo averla vista quella mattina, tra forbici e sete, assorta nei preparativi per la serata, si sentiva incapace di distogliere il suo pensiero da lei; ella tornava sempre a cascargli addosso, come un viaggiatore addormentato sballottato dai sobbalzi del treno. E questo non significava essere innamorati, ma piuttosto pensare a lei, criticarla, ricominciare, dopo trent’anni, a cercare di spiegarla.
Clarissa era donna di società; questo era, forse, il giudizio più esatto su di lei; teneva troppo al proprio rango sociale e alle facili ascese mondane.
Che in un certo senso fosse vero, ella lo aveva riconosciuto davanti a lui.
(Per poco che uno ci si mettesse, si poteva indurre Clarissa ad ammettere la verità; era fondamentalmente leale.) Ma aveva sempre detto e ripetuto di avere in uggia le vecchie zitelle, i fessi, i falliti, come lui probabilmente; nessuno aveva il diritto di starsene con le mani in mano, bisognava darsi da fare, essere qualcuno; e tutti quei gagà, quelle duchesse, quelle vecchie contesse incartapecorite che s’incontravano nel suo salotto – gente che a Peter pareva lontana le mille miglia dall’essere qualcuno o qualcosa – agli occhi di Clarissa rappresentavano un mondo intero. Lady Bexborough, ella aveva detto una volta, non s’appoggiava mai allo schienale della poltrona (così era Clarissa stessa; non si abbandonava mai nel vero senso della parola, era sempre diritta come un fuso, per non dire un po’ rigida). Diceva, Clarissa, che quella gente aveva una sorta di coraggio, che le pareva più degno d’ammirazione via via che andava avanti negli anni. In tutto ciò, beninteso, c’era molto di Dalloway; molto di quello spirito di classe governativo, ligio alle tradizioni, alla riforma delle tariffe, all’Impero Britannico. Spirito che, come accade spesso, l’aveva completamente assorbita. Intelligente il doppio del marito, era stata costretta a vedere le cose attraverso gli occhi di lui: una delle tragedie della vita coniugale. Quantunque avesse una sua mentalità, quella donna doveva sempre citare Richard – come se dopo aver letto la "Morning Post" del mattino non si sapesse dall’a alla zeta ciò che pensava Richard.
Quelle serate, per esempio, erano tutte per lui, o per l’idea che ella si faceva di lui (rendiamo giustizia a Richard: egli sarebbe stato assai più felice in una fattoria del Norfolk). Del suo salotto ella aveva fatto una specie di ritrovo; era nata per queste cose. Infinite volte Peter l’aveva vista scovare qualche giovincello imberbe, rigirarlo per ogni verso, svegliarlo, per poi lanciarlo. Gli illustri sconosciuti che vegetavano nella sua ombra formavano una legione, naturalmente. Ma ogni tanto, inaspettatamente, capitava qualche originale: un artista a volte; a volte uno scrittore; pesci fuor d’acqua in quell’atmosfera. E, substrato di tutto ciò, c’era quel lavorio di visite, di bigliettini, di scambi di cortesie; di corse con mazzi di fiori e regalini; Tizio parte per la Francia – bisogna regalargli un guanciale da viaggio… Era un vero dispendio di energie; tutto l’incessante lavorio che assilla le signore della sua classe. Eppure lei lo faceva spontaneamente, per istinto naturale. Fatto assai strano, Clarissa era uno dei caratteri più completamente scettici che Peter avesse mai conosciuto, e non era escluso (questa era una teoria che egli s’era costruita per cercare di spiegarsi quella donna, tanto trasparente per certi versi, tanto enigmatica per certi altri), non era escluso ch’ella dicesse a se stessa: Dato che noi siamo una razza condannata, incatenata a una nave destinata a naufragare (i suoi autori preferiti, da ragazza, erano Huxley e Tyndall, che prediligevano simili metafore nautiche), dato che tutta quanta la faccenda è un cattivo scherzo, facciamo almeno la nostra parte: mitighiamo le pene dei nostri compagni di sventura (ancora Huxley); orniamo l’oscuro carcere di fiori e di guanciali da viaggio, cerchiamo di essere onesti per quant’è possibile. Quei ribaldi, gli Dei, non faranno mica sempre di testa loro – ella era convinta che quelle divinità che non perdono mai occasione di ferire, contrastare e rovinare vite umane, rimangono grandemente impressionate se vedono che, malgrado tutto, ci si comporta come una vera signora. Quella fase era seguita immediatamente all’orribile episodio che era stato la morte di Sylvia. Vedere la sorella uccisa dalla caduta di un albero (tutta colpa di Justin Parry era stata, e della sua ignavia) sotto i propri occhi, una giovinetta sulla soglia della vita, la più intelligente di tutti loro, era abbastanza per rimanere amareggiati, diceva sempre Clarissa. In seguito divenne meno categorica, forse; era convinta che non ci fosse un Dio e che la colpa non esistesse; e così sviluppò in sé quella religione ateistica che ha come principio il bene per amore del bene.
Era naturale che godesse immensamente la vita. Godere era nella sua natura (sebbene ella fosse piena di reticenze; Peter stesso sentiva che, dopo tanti anni, di Clarissa non poteva tracciare altro che uno schizzo). In ogni modo, non c’era amarezza in lei; nulla di quella virtù moraleggiante tanto antipatica nelle donne oneste. Non c’era cosa al mondo che non l’attraesse.
Se si passeggiava con lei in Hyde Park, era ora un’aiuola di tulipani, ora un bimbo in carrozzella, ora un drammetto assurdo che la sua fantasia escogitava lì per lì. (Sicuramente avrebbe rivolto la parola a quei due innamorati, se li avesse creduti infelici.) Possedeva un senso dell’umorismo veramente squisito, tuttavia aveva bisogno di gente, sempre gente, per porlo in risalto, con l’inevitabile risultato che sciupava il proprio tempo a dare pranzi e cene, e quelle sue intime serate; e in chiacchiere, dicendo cose che non pensava, smussando gli spigoli del proprio spirito, oltrepassando spesso e volentieri il segno. Eccola là, seduta a capotavola, affannata a prodigarsi in salamelecchi verso un vecchio barbogio che poteva riuscire utile a Richard – i Dalloway conoscevano i più rinomati e tremendi seccatori di tutta Europa – oppure entrava Elizabeth, e ogni cosa passava in seconda linea davanti a lei. L’ultima volta che Peter era tornato in patria, era una ragazzina pallida, dagli occhi tondi, né carne né pesce, e frequentava le scuole medie; creatura taciturna e insipida che non aveva nulla della madre, prendeva tutto per buono, lasciava che la madre si sfogasse ben bene a sgridarla, poi come una bambina di quattro anni diceva: "Posso andare adesso?"; e se ne andava a giocare a hockey, come spiegava Clarissa con quel misto di compiacimento e divertimento che Dalloway stesso pareva ridestare in lei. E ora, era probabile che Elizabeth fosse già introdotta in società; certo lo trovava vecchio e noioso, e rideva alle spalle degli amici della madre. Ebbene, pazienza! I vantaggi dell’età, pensava Peter uscendo da Regent’s Park col cappello in mano, sono appunto questi: che le passioni rimangono inalterate, ma si è conquistata, finalmente, quell’energia che all’esistenza aggiunge il supremo aroma – la facoltà d’impadronirsi dell’esperienza e di volgerla lentamente verso la luce.
Gli costava cara, quella confessione (si rimise il cappello in testa); ma ormai, a cinquantatré anni suonati, non c’era più bisogno degli altri. La vita, ogni momento, ogni goccia, lì, in quell’istante, al sole in Regent’s Park, era fine a se stessa. Troppa grazia! Un’esistenza intera era troppo poco per trarne – ora che se n’era acquistata la facoltà – tutto il profumo; per farne scaturire ogni oncia di piacere, spremerne ogni sottinteso: cose assai più sentite di quanto non fossero una volta, ma anche assai meno personali. Impossibile ch’egli avesse a soffrire ancora così come lo aveva fatto soffrire Clarissa! Ormai, passavano ore (che nessuno ci senta, per amor di Dio!), ore e giorni senza che egli pensasse a Daisy… Allora, era mai possibile ch’egli fosse innamorato di Daisy? Ah, la miseria, le torture, la passione di quei giorni lontani? Era tutt’altra cosa, e anche assai più sgradevole in complesso – perché, diciamo la verità, adesso era lei che era innamorata di lui. E questa era forse la ragione per cui, al momento in cui il piroscafo s’era staccato da terra, Peter aveva provato un sollievo indicibile, non desiderando che di esser solo; e tutte le piccole attenzioni che la donna amata gli aveva fatto trovare in cabina – sigari, taccuini, una coperta da viaggio – lo avevano piuttosto tediato. Chiunque avesse avuto un’oncia di sincerità avrebbe confessato la stessa cosa; dopo i cinquanta si desidera essere soli; non si prova più alcun desiderio di far la corte alle donne; ecco quel che dovrebbero confessare gli uomini di cinquant’anni se fossero onesti, pensava Peter Walsh. Eppure, perché quelle stupefacenti crisi emotive? Perché era scoppiato in lagrime, al mattino? Che cosa aveva mai pensato di lui Clarissa? Probabilmente lo aveva giudicato uno sciocco, e non per la prima volta. Dietro le lagrime c’era la gelosia – la gelosia che sopravvive a tutte le altre passioni dell’uomo, meditava Peter Walsh, e intanto brandiva il temperino. Nell’ultima sua lettera, Daisy raccontava d’aver incontrato il maggiore Orde; lo diceva a bella posta, Peter lo capiva; lo diceva per ingelosirlo. Gli pareva di vederla aggrottare la fronte mentre scriveva, arrovellandosi per trovare qualcosa che lo ferisse; eppure ciò non impediva ch’egli fosse furibondo! Tutto quel trambusto per venire in Inghilterra e parlare con gli avvocati non era già per sposarla, ma per impedirle di sposare un altro. Ecco il suo tormento, ecco la rabbia che lo aveva invaso quando aveva visto Clarissa così calma, così fredda, tutta intenta a cucire il vestito o cosa fosse; allora s’era reso conto di ciò che quella donna avrebbe potuto risparmiargli – e a che cosa lo aveva ridotto, invece: un vecchio somaro piagnucoloso e sentimentale. Ma le donne (chiudendo il temperino riprese il corso dei suoi pensieri) non sanno che cosa sia la passione. Non sanno che cosa significa per gli uomini. Clarissa era fredda come un ghiacciolo. Gli si era seduta accanto sul divano, s’era lasciata prendere la mano, gli aveva scoccato un bel bacio sulla guancia…
Era giunto all’incrocio.
Un rumore lo disturbò; un tremolio fragile, una voce ch’era un borbottio senza meta né forza, senza capo né coda, flebile, stridulo e sprovvisto d’ogni senso intelligibile…
"ee um fah um so foo swee too eem oo…"


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