Andrea Muccioli e Alfano, Comunità di regime
Sembra che Andrea Muccioli, erede di San Patrignano, sia entrato in rotta di collisione con i Moratti, sostenitori storici della cosiddetta comunità terapeutica e che abbia deciso di andarsene. Chissà quali vicende concrete nasconde questo annuncio di disarmo che arriva con un sincronismo perfetto alla fine di un mondo, di una politica e di modelli mentali che sono state all’origine della fortuna di SanPa. Si mormora di soldi e di una mega villa, di operazioni spregiudicate in troppi settori.
Certo la retorica sta a zero e benché qualcuno tenti ancora di farla, non c’è dubbio che quella comunità oggi appare come ciò che è sempre stata: un modello di business costruito sulla pelle dei sofferenti, una emblema di carità pelosa e settaria, insomma un esempio di scuola delle sovrastrutture ideologiche del liberismo. Ma non era facile vederlo molti anni fa, quando Craxi e Berlusconi volevano a tutti i costi pompare l’opera di Vincenzo Muccioli come esempio di privato umanitario.
Ma chi come me e molti altri frequentavano la Romagna solatia sapevano di che pasta era fatto il fondatore: un accortissimo capo di una setta religiosa, beccato da un testimone a intagliarsi delle proto stimmate, un visionario che invitava gli adepti a disfarsi dei beni terreni, il tipico guru che s’intrufola nel vuoto lasciato dalla speranza. Forse per accorgersi che qualcosa non andava bisogna vedere il figlio del santone, l’attuale timoniere recalcitrante, sfrecciare sulla sua luccicante mercedes 300. E capire che la violenza esercitata su chi si rivolgeva alla comunità risentiva da una parte dell’attrazione del denaro e dall’altra dalla convinzione settaria che tutti dovessero aderire al modello umano che Vincenzo Muccioli aveva in testa. Qualcosa che non aveva nulla a che fare né con la compassione, né con la carità e nemmeno con la civiltà e il riscatto. Ma solo con le avidità e le ossessioni.
E adesso faccio una confessione: Cortina era letale per Montanelli, le sue vacanze nella conca di Ampezzo, a contatto con il “generone” meneghino e nordista che lo adulava e tentava di trascinarlo al suo livello, erano spesso un bagno poco salutare. E così la simpatia verso San Patrignano che veniva espressa sul Giornale era solo in parte dovuta alle pressioni di Berlusconi e di Craxi per pompare l’opera di Muccioli, in realtà era proprio effetto di quella ricca borghesia salottiera che nel difendere il santone e la sua opera, nonostante le molte ombre giudiziarie, cercava di esprimere una sorta di umanesimo affarista, un umanesimo senza umanità. E anche di assolutizzare un modello sociale con forme di violenza sostenibile, come si direbbe oggi.
Inutilmente si diceva al vecchio che San Patrignano stava a metà tra la mania e il danè. Inutilmente si disegnava la figura di Muccioli considerato per molti anni prima di San Patrignano un pazzo benestante, un “matt dri a un quel” che avendo poco da fare si dilettava di fare il profeta, uno che andava in trance a comando e si identificava con Cristo. Ed è anche così che si è alimentata una leggenda che forse solo oggi arriva agli sgoccioli.
Nemmeno serviva ricordagli che l’altruismo di Muccioli era singolare quanto il personaggio: così quando padre Vicenzo regalò tutti i beni immobili di appartenenza della comunità alla Fondazione S. Patrignano, nata sul finire del 1985, sembrò chissà quale atto di disinteresse e altruismo nei confronti dei suoi “pazienti” a suon di catene. Però c’era il trucco: l’articolo 11 dello statuto della fondazione recitava: «se entro tre anni dal riconoscimento della personalità giuridica (cioè entro il 26 marzo 1994), il patrimonio della fondazione supera la soglia dei quattro miliardi la casa potrà ritornare di proprietà dei figli se ne faranno richiesta entro il 2001. Richiesta da inoltrare al Presidente della Fondazione», cioè Muccioli stesso. Ed è fin troppo ovvio che al momento in cui fu scritto lo statuto i beni già sfioravano quel valore e con l’inflazione a due cifre l’avrebbero superata in pochi mesi.
Che tristezze. Che tristezza quelle foto di gruppo in allegria e quei 30 milioni di bilancio, di cui 3,4 di aiuti di Stato. Ora questa leggenda sta per finire, come molte cose di quell’Italia che ci siamo trascinate dietro, come anche quell’altra fondazione ad personam che è il San Raffaele. Forse l’azienda non funziona più così bene o forse si sta miracolosamente tentando il recupero dell’umanità perduta.