In principio era il vuoto. E il vuoto si fece bolle. E no, non è una parafrasi del celebre incipit dell’evangelista Giovanni: è il modo in cui i cosmologi del multiverso si figurano la scena primigenia per definizione. Non tanto un istante, un big bang, dunque, quanto un quieto ribollir dell’energia del vuoto nel calderone dello spaziotempo. Dove ogni bolla che s’andava formando segnava la nascita d’un nuovo universo.
Vi lascia perplessi, questa ricostruzione? Siete in buona compagnia. Se da una parte i sostenitori del multiverso di dicono convinti che la loro teoria altro non sia che l’approdo inevitabile per una rotta che muova dal modello inflazionistico, dall’altra la nutrita schiera degli scettici non si stanca di sottolineare come, trattandosi di un’ipotesi che non può essere sottoposta a verifica sperimentale, più che nell’ambito della fisica rientrerebbe in quello della metafisica.
Come dar loro torto? Per esempio, mettendo a punto strumenti e criteri per sottoporre la teoria del multiverso a verifica. Ed è quello che alcuni cosmologi, da qualche anno a questa parte, stanno tentando di fare. L’approccio più promettente, in questa disperata caccia alla verificabilità sperimentale, è quello che si basa sulle collisioni fra bolle. Già tre anni fa ne avevamo dato conto su Media INAF, e oggi un gruppo di ricercatori – in parte gli stessi d’allora – annuncia d’aver compiuto passi avanti. Simulando al computer interi universi.
«Partiamo da un multiverso formato da due sole bolle. Le facciamo entrare in collisione l’una con l’altra, per vedere che succede. Quindi piazziamo un osservatore virtuale qua e là e ricostruiamo ciò che vedrebbe dalle posizioni in cui si trova», spiega Matthew Johnson, ricercatore al Perimeter Institute, un centro canadese per lo studio della fisica teorica, e coautore di uno studio uscito nella primavera scorsa su JCAP, il Journal of Cosmology and Astroparticle Physics. A questo punto, se ciò che l’osservatore virtuale riferisce non è compatibile con quello che i dati raccontano, il modello simulato è da ritenersi invalidato, e si passa a quello successivo.
«Siamo cioè in grado di affermare che alcuni modelli prevedono qualcosa che dovremmo poter vedere. E dal momento che non lo vediamo, possiamo escluderli», dice Johnson. D’accordo, ma qualcosa di che genere? Per esempio una botta, una sorta d’ammaccatura circolare, impressa sulle mappe del fondo cosmico a microonde ottenute dai dati di WMAP e Planck. Un po’ come il segno lasciato sulla carrozzeria d’un’autovettura a seguito d’un urto. Un “disco nel cielo”, lo chiamano Johnson e colleghi.
Il fatto che di questo fantomatico disco, nei dati a oggi disponibili, sembri non esserci traccia pone a sfavore di quei modelli che prevedono un alto numero di collisioni. Ma non è questo il punto. Ciò che più conta, scrivono i ricercatori nel loro articolo, è che per la prima volta è stata prodotta una serie di predizioni quantitative di quelle che dovrebbero essere le firme osservabili, i segni, lasciati dalle collisioni fra bolle. Detto altrimenti, quello del multiverso è un modello che – potenzialmente – può essere sottoposto a verifica sperimentale. Dunque potremmo effettivamente essere in grado di dire se quella che ci avvolge è davvero una bolla cosmica fra tante.
Per saperne di più:
- Leggi su JCAP l’articolo “Simulating the universe(s): from cosmic bubble collisions to
cosmological observables with numerical relativity“, di Carroll L. Wainwright, Matthew C. Johnson, Hiranya V. Peiris, Anthony Aguirre, Luis Lehner e Steven L. Liebling - Riascolta l’intervista rilasciata nel 2011 a Media INAF da Hiranya Peiris (in inglese)
Guarda il video realizzato dai ricercatori del Perimeter Institute:
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina