Li abbiamo conosciuti grazie a Sigh no More, disco d’esordio che ha venduto più di un milione di copie. Un successo planetario che li ha immediatamente catapultati oltre i confini britannici.
Stiamo parlando di Marcus Mumford, Winston Marshall, Ben Lovett e Ted Dwane, ovvero i Mumford and Sons, gruppo indie folk londinese. Ma le etichette musicali in casi come questo contano poco, quello che conta davvero sono le emozioni che questi quattro ragazzi riescono a trasmettere con le loro canzoni.
Testi che parlano di esperienze personali, richiami letterari, armonizzazioni vocali, il tutto suonato con gli strumenti più diversi: banjo, grancassa, contrabasso, chitarre, violini, trombe e tastiere.
Dopo l’incredibile successo, però, i Mumford and Sons sono stati chiamati alla prova più difficile per un musicista, il secondo album. E proprio Babel ha dimostrato che non si trattava di un fenomeno passeggero, rivelandosi in tutto e per tutto una conferma.
Ma l’essenza più pura di questa band viene fuori quando i quattro salgano sul palco, imbracciano i loro strumenti ed iniziano a cantare. È in quel momento che incantano e coinvolgono le folle sempre più numerose che accorrono ai loro concerti, grazie a tutta la passione che riescono a trasmettere.
Ed è esattamente quello che è successo nella data milanese (giovedì 14 marzo all’Alcatraz) del loro tour europeo, sold out solo una settimana dopo la messa in vendita dei biglietti.
Circa un’ora e tre quarti di spettacolo, durante il quale hanno alternato pezzi del primo e del secondo album, e durante il quale i presenti hanno ballato e cantato a squarciagola in preda ad un folle entusiasmo.
Il tutto impreziosito da splendidi giochi di luce, creati ad hoc per ogni canzone.
Un successo ripetutosi poi sia a Firenze che a Roma.
Non sappiamo cosa il futuro riserverà ai Mumford and sons, ma quello che di certo sappiamo è che il loro presente è senz’altro elettrizzante.
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