Per capire chi fosse Hugo Chávez bisogna rimontare a quel 4 febbraio 1992 quando assieme ad altri tre ufficiali dell’esercito venezuelano il futuro caudillo intentò un colpo di Stato contro l’allora presidente Carlos Andrés Pérez.
Bisogna quindi ricordare il Venezuela di allora che, dopo la crescita economica degli anni Settanta, viene ingannato dalla svolta neo-liberale di Pérez, il gran viraje che, sulle indicazioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, consegnò grandi fortune a pochi e affondò tanti. Nella capitale, ma anche in tutto il Paese, in quei caldi giorni di febbraio è ancora grande la commozione per il Caracazo, la strage compiuta dall’esercito a Caracas in risposta alle manifestazioni di piazza che chiedevano giustizia sociale. Il saldo di una settimana di scontri e saccheggi è alla fine di quasi trecento morti (anche se le cifre ufficiali non si conosceranno mai) e all’indomani della repressione l’impressione è che nulla sarà mai più come prima. Una nazione in ginocchio: ecco quello che era il Venezuela, dominato da una classe saccente convinta di possedere il controllo e così sicura del proprio predominio, che tutto si aspettava meno che una ribellione.
Non è un caso che il movimento del 4 febbraio 1992 si mette in moto quando Pérez sta tornando dal Foro economico mondiale di Davos, una risposta al suo programma che, nonostante i morti, le proteste ed i fantasmi del Caracazo, continua ad andare avanti. Hugo Chávez, nato da una coppia di maestri elementari della provincia di Barinas, è militare –tenente colonnello-, ma è soprattutto figlio di quel popolo che soffre in prima persona le conseguenze delle decisioni prese dal ristretto gruppo dell’oligarchia venezuelana. Non sta a guardare, quindi e attua: il golpe fallisce e si prende due anni di prigione, che serviranno per rinsaldare le sue convinzioni di una via alternativa per il Venezuela, quella di un socialismo bolivariano che mischia un poco il sacro con il profano. Bolívar tutto sarebbe stato, meno che un socialista, ma il suo ideale di libertà ben si addice con il messaggio che Chávez vuole trasmettere ad un popolo che, nella sua grande maggioranza, ha bisogno di chiari esempi per contrastare la sua bassa scolarità.
Quando diventa presidente ammette di essere stato ispirato, in campagna elettorale, da un libro. Tutti si aspettano un classico, ed invece lui cita ¨El Oráculo del Guerrero¨, di uno sconosciuto autore argentino, cileno d’adozione, Lucas Estrella Schultz. Mentre in parlamento si discute sulla nuova Costituzione e l’opposizione lo attacca, Chávez lascia sfogare i suoi avversari e quando viene chiamato a rispondere, dice: ¨Le aquile non cacciano mosche¨.
Chávez, l’aquila, si libera presto di quella fastidiosa opposizione –le mosche- che non si è accorta che il gioco è cambiato e con esso, anche i tempi. Il resto l’abbiamo vissuto giorno dopo giorno, abbiamo visto come l’esperimento bolivariano si è trasformato in un progetto prima ed in fatti reali successivamente, provocando un effetto a valanga in America Latina che ha avuto come risultato la riappropriazione di un’identità che era stata da sempre calpestata. Se il subcontinente è oggi cambiato, si deve anche e soprattutto a Chávez, che ha fatto di un sentiero appena praticabile, un’autostrada sulla quale si sono accodati movimenti, organizzazioni, partiti, cani sciolti, gruppi che fino a pochi anni fa non avevano voce ed erano considerati gli ultimi della Terra.
Chávez lascia oggi un Venezuela dai forti contrasti, dove il populismo ha creato in molti casi equità sociale, ma anche dei mostri. Maduro che dovrà essere il successore del caudillo, a cadavere ancora caldo, invoca fantasmi e cospirazioni ed ordina una sorta di legge marziale di dubbio intendimento. Mi sembra che sia come iniziare con il piede sbagliato. Dovrebbe invece cominciare a correggere quegli errori che il governo di un uomo solo spesso provoca.
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