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Murakami e i suoi Pellegrinaggi dai Colori Sbiaditi

Creato il 22 ottobre 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Murakami e i suoi Pellegrinaggi dai Colori Sbiaditi

Colleziono segnalibri, mania probabilmente non troppo strana. Ma amo notare come in casi fortuiti il segnalibro si adatti al libro letto. Da pochissimo si è verificata la coincidenza più perfetta dei miei anni da lettrice: la frase stampata sul cartoncino rettangolare l'avrebbe potuta pronunciare il protagonista de L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami Haruki (edito da Einaudi con la traduzione di Antonietta Pastore).

La frase in questione è "Non credo di saper fare nulla particolarmente bene ma credo che, in un certo senso, sia necessario che io sia esattamente così" pronunciata dal chitarrista dei Beatles George Harrison, e starebbe benissimo in bocca a Tazaki Tsukuru. Conosciamo Tsukuru in un periodo particolare della sua vita: vuole morire. E ci racconta dell'amicizia con due ragazzi e due ragazze dai talenti speciali con i quali faceva gruppo fisso, praticamente inseparabile, ai tempi della scuola. L' incolore e la frase stampata sul segnalibro si riferiscono proprio a questo gruppo: i quattro amici spiccano tutti in qualcosa (chi in arguzia, chi nello sport, chi nelle arti) ed hanno nel loro nome e cognome un colore (cosa molto comune in Giappone) mentre il nostro protagonista non sa fare nulla di speciale, si definisce quasi un inetto e come c'era da aspettarsi il suo nome non ha riferimenti cromatici di alcun tipo. E questa cosa in qualche modo lo segna.

Ma tornando all'insano gesto, l'idea scaturisce dalla fine della frequentazione con questo gruppo successiva al suo trasferimento a Tokyo dalla città natale dove condivideva il tempo con i cromatici amici. Finito il liceo, ognuno prende la propria strada ma succede qualcosa, un evento incomprensibile e Tsukuru viene cacciato via malamente dalla combriccola senza spiegazioni. È troppo debole e troppo dipendente da loro per chiederne una, e ci mette anni per guarire questa ferita.

Gli anni di pellegrinaggio del titolo sono proprio questi, il percorso che egli compie per superare quest'abbandono e crescere: la ferita via via va rimarginandosi, viene però riaperta da una donna conosciuta per caso che lo costringe quasi a cercare di chiarire quanto accaduto e a tornare a invischiarsi col suo passato. Le scoperte non saranno piacevoli, lasceranno l'amaro in bocca ma contribuiranno a chiudere uno squarcio rimasto aperto troppo a lungo.

Murakami ci racconta una storia abbastanza introspettiva con dei risvolti quasi tendenti al thriller, c'è un mistero da scoprire e un segreto da svelare. Il romanzo mixa azione e riflessione, dialoghi e risoluzioni. Tsukuru viene messo a nudo davanti al lettore con tutte le sue fobie e le sue debolezze, con la sua solitudine e la sua paura dell'abbandono. È un uomo il cui isolamento è spiazzante ma ha un punto di forza, che lui non si riconosce ma che risulta lampante a tutti: ha perseguito il suo sogno, il sogno che aveva fin da adolescente, e lo ha realizzato. Probabilmente lui non se n'è reso conto neanche alla fine del libro, ma è l'unico ad essere diventato quello che voleva.

Per quanto riguarda lo stile sembra quasi di aver letto un Murakami più vicino a Norwegian Wood ( Tokyo Blues per i più datati) con quei dialoghi dalle tinte un po' malinconiche e psicologiche che tanto hanno caratterizzato il primo romanzo e che l'hanno consacrato al pubblico. Io ho amato Murakami da quel libro che ormai è logoro per tutte le riletture periodiche che gli dedico, e questi suoi nuovi pellegrinaggi nell'animo umano sono per me assolutamente ben riusciti.


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