Ora la sua voce e le sue prese di posizione avrebbero di nuovo invaso i media. Sarebbero riuscite nell’aria fuori da un appartamento per farsi sentire ovunque. John Lennon amava passeggiare tra gli alberi e i fan di Central Park. Scambiava parole con loro. Anche quel giorno uscì.
Anche quel giorno firmò gli autografi ai ragazzi che lo fermavano. Faceva un sorriso e firmava. Autografò pure la copia di Double Fantasy nel pomeriggio a un ammiratore chiamato Mark David Chapman.
Mark David Chapman, che però adesso non sopportava che colui che aveva cantato Imagine risiedesse in una casa da milionario altoborghese come quella nel palazzo all’angolo nord-ovest tra la 72a Street e Central Park West. No, Mark David Chapman, che non poteva permettersi niente di più di una modesta stanza all’ostello dell’YMCA, proprio non poteva sopportarlo.
Non poteva tollerare, lui, cristiano rinato, dopo una vita di vagabondaggi, droghe e disturbi mentali, come pure di volontariato e di lavoro, che Lennon, un ateo che aveva avuto l’ardire di dichiarare che i Beatles erano «più famosi di Gesù», fosse ancora in giro a sputare le sue falsità.
Ma, soprattutto, non riusciva ad accettare che lui, Mark David Chapman, non fosse John Lennon.
Doveva appropriarsi della sua vita per essere come lui. Per farsi illuminare dalla sua gloria per sempre. Famoso come John Lennon.
Per questo si era appostato sotto il Dakota Building. Leggendo e rileggendo un libro: Il giovane Holden. Ma non solo per questo, anzi, alla fine dovette ammettere che questo era soltanto un pretesto. “«C’è che io non so davvero perché ho ucciso John Lennon. So solo di una voce che mi ripeteva “Fallo!” Aprivo il mio libro, ne leggevo qualche passo e la voce mi ordinava di farlo. La sentivo da tempo, ma non ricordo da quanto».
Sicuramente dal 17 novembre precedente la notte del delitto, quando John Lennon pubblica Double Fantasy e Chapman ne acquista una copia, la voce si era fatta più insistente mentre lui il 27 ottobre già aveva comprato una Smith & Wesson calibro .38, un’arma che sapeva usare bene per i suoi trascorsi come guardia giurata a Honolulu.
Aveva lasciato il lavoro alle Hawaii ed era andato due giorni dopo a New York, frustrato e arrabbiato come il Giovane Holden, col suo libro e la voce che gli ripeteva «Fallo!» Non lo fece però. Aspettò.
Compro i proiettili, facendo un salto ad Atlanta in Georgia da un amico, perché a New York non potevano venderglieli in quanto lì il suo porto d’armi non era valido. E si appostò davanti al Dakota fino al 12 novembre senza mai riuscire a incontrare John.
Poi tornò a casa per qualche giorno dalla moglie – come Lennon al ritorno dal “lost weekend”– non sentendo quasi più la voce.
Ma la voce tornò continua e forte quando il disco era in tutti i negozi e così, il 7 dicembre, era di nuovo là.
Prese una stanza in un albergo, lo Sheraton Center Hotel sulla Settima Avenue, e poi si trasferì all’ostello dell’YMCA (firmandosi sul libro delle presenze John Lennon, senza che il portiere se ne accorgesse) e si mise a leggere alcune pagine di una nuova copia de Il giovane Holden” (da “Rockriminal Murder Ballads Storie di Rock Balordo e Maledetto”).