Lanzmann e Murmelstein in un momento della lunga intervista
Nel documentario di Claude Lanzmann la figura controversa di Benjamin MurmelsteinUltimo presidente del consiglio degli anziani del ghetto di Terezin accusato di collaborare con i nazisti venne scagionato dai tribunali. Ma non dai suoi
di Gaetano ValliniClaude Lanzmann aggiunge una lunga appendice alla già monumentale opera cinematografica Shoah. E lo fa per raccontare una storia in particolare, la vita di un solo uomo: Benjamin Murmelstein, l’ultimo presidente del consiglio degli anziani del “ghetto modello” di Terezin, nell’allora Cecoslovacchia, l’unico Jewish elder, secondo la definizione nazista, a non essere stato assassinato. Il documentario, quasi quattro ore, è intitolato Le dernier des injustes (L’ultimo degli ingiusti), come si era definito lo stesso protagonista rovesciando il titolo di un libro di André Schwartz-Bart, ed è stato presentato fuori concorso all’ultimo festival di Cannes suscitando subito notevole interesse. Perché l’opera è di fatto una sostanziale riabilitazione di Murmelstein, personaggio finora considerato controverso, ambiguo nel suo operato e nel suo rapporto con i nazisti.
Lanzamann alla stazione di Bohosovice (vicino Terezin) in una scena del film
Il giudizio dei sopravvissuti sui capi e membri dei consigli ebraici è sempre stato in generale negativo, o quantomeno sospeso, perché non è mai risultato chiaro quanto il loro agire fosse di sottomessa collaborazione con i nazisti nel folle piano di sterminio e quanto invece si siano adoperati per la salvezza degli ebrei nei ghetti. Dunque neppure l’opinione sui suoi due predecessori Jacob Edelstein e Paul Eppstein, così come sugli elder dei ghetti di Varsavia, Adam Czerniakó, e di Lódz, Chaim Rumkovski, è positiva, ma il fatto stesso che Murmelstein sia stato l’unico a sopravvivere ha gettato un’ulteriore ombra sul suo operato in quegli anni bui. La base del documentario è un’intervista rilasciata da Murmelstein al regista — che stava preparando il materiale per Shoah — nel 1975 a Roma, dove si era ritirato. Quasi trent’anni dopo quell’incontro, l’ottantottenne Lanzmann torna nella città fatta edificare appositamente da Adolf Eichmann nel 1941 al fine di ingannare il mondo e gli stessi ebrei, per raccontare quanto vi accadde. E soprattutto quale ruolo vi svolse quell’uomo accusato in seguito di aver tradito il suo popolo. Il regista ripercorre le strade verso il ghetto, dall’arrivo alla stazione, fino alle camerate. Legge pagine di testimonianze sulle disumane condizioni di vita all’interno, a dispetto di quanto mostravano le inquietanti sequenze — qui in parte riproposte — del film Theresienstadt: una cinica messa in scena realizzata dai nazisti nel 1944 per mostrare, a una comunità internazionale allarmata dalle notizie che filtravano dai territori occupati, il modo dignitoso con il quale venivano trattati gli ebrei, le loro buone condizioni quanto a cibo e cure, le attività sportive e le iniziative culturali cui potevano partecipare al pari di spettacoli teatrali e cinematografici. Insomma, un documentario di propaganda per mostrare il ghetto modello in cui passarono oltre 140.000 ebrei provenienti principalmente da Berlino, Praga e Vienna. Solo 17.247 sopravvissero.Una veduta aerea di Terezin
E Vienna era la città di cui era rabbino Murmelstein, il quale racconta di aver visto di persona Adolf Eichmann partecipare alle violenze della Notte dei cristalli nel 1938. Lo stesso Eichmann — il diavolo, lo definisce — dal quale poco dopo ebbe l’incarico di organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei austriaci. Per questo e per il successivo ruolo nel campo Murmelstein diventa un testimone prezioso della Shoah. Nel suo libro, edito in Italia nel 1961 da Cappelli e ripubblicato nell’occasione da La Scuola con una postfazione del figlio Wolf, Terezin. Il ghetto-modello di Eichmann, descrive infatti nei minimi particolari la vita dei deportati. Si sofferma a lungo sul lavoro di abbellimento nel 1943 per i citai fini propagandistici. A rileggerlo oggi, quel libro non appare così sconvolgente. Ma all’epoca si sapeva ancora poco di ciò che era avvenuto, e le pagine di Murmelstein costituirono una fonte incredibile. Fonte che però acquista nuova luce dal documentario, nel quale il protagonista aggiunge ulteriori particolari e giudizi. E soprattutto parla di sé. Dalla lunga intervista emerge un uomo dalla spiccata personalità, colto, ironico, intelligente e coraggioso. Ma, in particolare, ascoltandolo si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a una persona convinta della bontà del proprio agire. «Sentendo la sua storia — ha affermato in proposito Lanzmann presentando l’opera — ho scoperto un uomo di grande onestà morale e intellettuale. Con i nazisti non aveva mai avuto nulla da spartire. Non era un collaborazionista, ma solo un poveraccio costretto ad accettare la logica perversa che obbligava gli ebrei ad amministrare la macchina di morte dei campi». Insomma un uomo pratico, anche se dalla forte personalità: «Non ho mai avuto paura del diavolo, ho cercato sempre — dice di sé — per quanto possibile di restare libero». Astuto, faceva leva sui punti deboli dei suoi aguzzini per salvare il salvabile. Lo fece con Eichmann, non sordo al richiamo del denaro, grazie al quale riuscì a strappare al campo e a far emigrare numerosi ebrei. «I nazisti volevano fare di lui una marionetta — ha detto ancora Lanzmann — ma lui aveva imparato a tirare i fili da solo».Arrivo al ghetto di Terezin
Uno degli aspetti dell’intervista che sicuramente suscita maggiore interesse è la lettura che Murmelstein fa della personalità di Eichmann, dell’uomo che, a seguito del processo cui fu sottoposto nel 1961 a Gerusalemme dopo la cattura in Argentina a opera del Mossad, venne considerato il simbolo della «banalità del male», categoria coniata da Hannah Arendt per descrivere il meccanismo attraverso il quale persone normali si trasformarono in assassini. Ebbene, dalla descrizione di Murmelstein emerge una descrizione ben diversa dell’uomo che di fatto organizzò la “soluzione finale”. «Altro che burocrate ottuso. Eichmann — ha sottolineato Lanzmann — era un demonio: violento, corrotto, furbissimo». Per questo il regista, pur ammettendo di non aver seguito bene il dibattimento, ha criticato aspramente la filosofa e il processo al quale fu sottoposto l’ufficiale delle SS: «Ho appreso, lavorando per Shoah, che fu molto povero, portato avanti da persone ignoranti, voluto da Ben Gurion come una sorta di giustificazione per la nascita dello Stato di Israele. Arendt, che aveva seguito tutto da lontano, racconta un sacco di assurdità. Più che della banalità del male bisognerebbe parlare della banalità delle conclusioni della signora Arendt».Comunque la si pensi, non è però questo il fulcro dell’opera. Del resto lo stesso Murmelstein è più interessato all’autodifesa, ovvero a provare la sua innocenza. E perciò punta sulla questione relativa alla gestione del ghetto e ai rapporti con i nazisti. Che poi all’epoca significava per lui risolvere un atroce dilemma: salvare la vita di una parte degli abitanti del ghetto a spese dei rimanenti, collaborando in qualche modo con i nazisti (alcuni dei quali pronti a trattare con gli Alleati utilizzando gli ebrei come merce di scambio), oppure non prendere posizione lasciando che tutti venissero annientati? Alla fine del documentario il dubbio resta, visto che, malgrado tutto, lo stessoVita quotidiana nel ghetto
Murmelstein sembra esserne stato assillato per il resto della sua vita. Tuttavia si fa strada l’idea che egli abbia agito allora convinto di fare la cosa giusta. E se è vero che in ogni caso le azioni appartengono alle responsabilità individuali di quanti, per fini più o meno nobili, furono intermediari fra vittime e carnefici, non bisogna dimenticare – come ha scritto di recente Anna Foa — che «in ogni caso la colpa non era di quanti tentavano di mantenere in vita il ghetto, operando scelte terribili in una situazione comunque estrema, ma di chi li aveva collocati in questa condizione, i nazisti». In sostanza, appare più chiaro che forse la grande colpa di Murmelstein, peraltro assolto dai tribunali dai quali fu chiamato a essere giudicato, sia stata quella di sopravvivere. Da parte sua, Lanzmann afferma di aver imparato una lezione da questa vicenda, ovvero che «in determinate situazioni non esiste altro comportamento che l’obbedienza, e che ogni tipo di resistenza diventa inutile. Detto questo — aggiunge — Murmelstein ha continuato a combattere fino alla fine contro gli assassini». Benjamin Murmelstein morì nel 1989 senza essere scampato alla sindrome del sopravvissuto e a una certa emarginazione. L’allora Rabbino Capo di Roma, Elio Toaff, che già nel 1983 gli aveva negato l’iscrizione alla Comunità, gli rifiutò — come ricorda con amarezza Wolf Murmelstein nella postfazione al libro del padre — anche la sepoltura nella tomba della moglie. E aggiunge: «Chi scrive fu mortificato col rifiuto di recitare in sinagoga la preghiera in ricordo del padre perché avesse “parte del mondo futuro”». Prossimamente il regista verrà a Roma per presentare il documentario proprio al figlio di Murmelstein. Forse sarà l’occasione per avviare un più sereno cammino di revisione del giudizio.(©L'Osservatore Romano – 1/2 luglio 2013)