MUSICA AFRICANA | Tra locale e globale: il caso ugandese

Creato il 10 dicembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

di Mauro Carosio

L’Uganda è un paese rimasto ai margini dei movimentati laboratori del sincretismo in musica di tanta parte dell’Africa, e al di fuori dei circuiti commerciali che negli ultimi tempi hanno fatto sì che la musica africana diventasse un prodotto di consumo e di successo in Europa e in America. Fatto dovuto in parte a ragioni storiche e in parte alla scarsa produzione di un genere musicale peculiare, che potesse fare di questo paese un centro di interesse da parte di addetti ai lavori occidentali, cosa che è successa ad altri paesi africani come il Mali, il Senegal, la Repubblica Democratica del Congo, la Costa d’Avorio o il Sud Africa.

L’aspetto che maggiormente incuriosisce chi decide di interessarsi alla musica ugandese è l’attività entusiasta e appassionata con cui i musicisti locali, negli ultimi anni, lavorano per restituire agli ascoltatori, occidentali (quei pochi che vi si imbattono) e locali, un prodotto che fin dal primo ascolto risulta come qualcosa di già sentito e per nulla originale. L’immaginario collettivo, che farebbe pensare all’Uganda come a un piccolo e misterioso paese al centro del continente africano, isolato e incontaminato, e quindi produttore di chissà quali prodotti ancora originali, autentici e tradizionali, viene smentito assolutamente nei fatti. Da qui diventa interessante capire e analizzare quali sono i processi che indicano i parametri di quel che chiamiamo “modernità”, anche nei luoghi più remoti del “villaggio globale” che abitiamo. Opinioni in materia costituiscono da tempo oggetto di analisi di varie branche dell’antropologia contemporanea, il cui studio risulta prezioso ai fini di una maggiore comprensione e l’Africa rimane da sempre un laboratorio privilegiato.

“L’Africa deve più che mai essere concepita come un’entità deterritorializzata. L’Africa in quanto significante fluttuante è un concetto a geometria variabile che appartiene tanto alle banlieus francesi quanto ai ghetti nordamericani, alle favelas brasiliane quanto ai villaggi africani. In questo senso l’Africa è un elemento essenziale dell’immaginario planetario, si declina in tutta una serie di figure che sono una parte della globalizzazione contemporanea.”[1]

In questo senso, la musica contemporanea ugandese è un mezzo come un altro per prendere le distanze dall’approccio che consiste nel vedere nel nostro mondo globalizzato il prodotto di una mescolanza di culture viste a loro volta come universi chiusi. La metafora delle connessioni, usata da Jean Loup Amselle, può dimostrare quanto il fenomeno della globalizzazione sia pervasivo e, lungi dall’essere una novità, prenda le mosse da episodi di globalizzazioni anteriori: “connettersi” con il Rap americano, per esempio, risulterà uno dei modi migliori per ritrovare radici africane. La musica contemporanea ugandese inoltre si presenta, per dirlo alla Marcel Mauss, come “fatto sociale totale” nel senso che ascoltare musica oggi in Uganda si accompagna ad atti e a rappresentazioni che coinvolgono molti aspetti della vita sociale.[2]

Analizzando, infatti, i generi musicali ascoltati oggi a Kampala e dintorni, soprattutto da un pubblico giovane, si ha una visione chiara dei modelli culturali che si infiltrano e penetrano in una società lontana da un Occidente che va sempre più perdendo significati egemonici ben circoscritti. In effetti lo studio dell’esperienza musicale contemporanea ugandese, nel suo dialogo con gli altri livelli della vita di una società, consente di giungere a una comprensione più profonda dell’attività dei musicisti da un lato, e del patrimonio simbolico e valoriale di gruppi e individui dall’altro. Oggi il veloce cambiamento portato dalla globalizzazione, ha fatto sì che il rappresentare gli altri non consista più in una descrizione o nel cogliere una coerenza o ancora un valore, ma nel saperli inserire in questo nuovo concetto di mondo, sempre però “dal punto di vista del nativo”. Del resto, scopo fondamentale dell’antropologia è decentrare e liberare lo sguardo dai condizionamenti imposti dalla cultura di colui che osserva. Operazione difficile, ciò che possiamo fare è assumere un atteggiamento relativo, cioè un predisporsi a una comprensione che sia il più possibile svincolata dai nostri pregiudizi. [3]

Un altro aspetto interessante, e non trascurabile in un’indagine di questo genere è osservare come i musicisti ugandesi, si mostrano al mondo attraverso il web, mettendo a nostra disposizioni i video delle loro incisioni o performance dal vivo, manifestando quindi palesemente quali sono i loro canoni di riferimento e i messaggi che intendono far passare.

Aprendo uno scenario di modernità parallele, l’esperienza della ricerca su un piccolo fenomeno come la musica contemporanea in Uganda si rivela un barometro, in grado di indicare quanto i confini della tradizione e dell’”autentico” siano oggi sempre più porosi e aperti a contaminazioni di ogni genere. Bisogna abbandonare definitivamente l’idea che il “locale” sia autonomo. L’appropriazione o la riappropriazione di generi musicali, apparentemente collocati in contesti situati fuori dal continente africano, sono la dimostrazione del fatto che non ci si può più appellare a un concetto forse rassicurante, ma ormai desueto, di immobilità delle culture che oggi viaggiano velocemente da un capo all’altro del pianeta “connettendo” tra loro popoli e costumi. I musicisti ugandesi più in voga degli ultimi anni hanno volto lo sguardo all’Occidente appropriandosi di generi che non hanno nulla a che fare con la musica cosiddetta “tradizionale”, adattando tali modelli al loro contesto di azione e di messa in scena. La fine dei rigidi controlli dei regimi che promuovevano soltanto espressioni artistiche celebrative delle loro ideologie, o dei paesi occidentali con cui avevano rapporti economici, ha dato inizio a una libertà di espressione aprendo le porte del paese all’invasione di stili musicali e di vita provenienti da altre parti del mondo. Le culture giovanili si appropriano di simboli globali dell’appartenenza, il lessico e le movenze dei rappers afro-americani, la cultura Hip-Hop, la mistica del Reggae, l’Afrobeat, che coinvolge un’area più vasta, vengono incorporati e re-interpretati dai giovani artisti ugandesi creando versioni locali di movimenti globali che diventano in questo modo elementi integranti dell’attuale costruzione di identità, spazi sociali e vita quotidiana.[4] L’appropriazione di tali modelli caratterizza dunque con particolare evidenza le espressioni identitarie dispiegate intorno all’immaginario Reggae e Hip-Hop. Le immagini e i simboli appartenenti a questi movimenti globali sono infatti soggetti, soprattutto da parte di un’utenza giovane, a un processo di incorporazione che ne diffonde i significati nelle minime pratiche quotidiane. Ne sono esempi pregnanti i ritratti di icone mondiali, da Bob Marley a Puff  Daddy, affissi nei luoghi di incontro più frequentati o negli studi di registrazione dei musicisti, i tatuaggi e l’abbigliamento, il look degli artisti e dei fan che procedono, come ovunque, per emulazione.

Forme e contenuti di significati divenuti universali vengono così reinterpretati attraverso un processo di rinegoziazione che li renda idonei a rispondere alle esigenze specifiche della situazione locale. Il Reggae e l’Hip-Hop, per esempio, sono molto apprezzati in quanto subculture emerse dalla strada, nell’ambito di un contesto drammatico di povertà, oppressione e deprivazione. L’estrema popolarità di questi generi è dunque dovuta alla capacità loro attribuita di cogliere l’essenza della condizione della gioventù locale, e la dialettica di interscambio reciproco tra locale e globale così instaurata viene resa funzionale al progetto pubblico di autorappresentazione promosso dagli artisti, attuato attraverso l’incorporazione di segni e simboli soggetti alla circolazione transnazionale. I giovani ugandesi, ma la stessa cosa si potrebbe dire per i vicini tanzanesi, assimilano le proprie esistenza alle biografie delle più celebri icone della cultura afro-americana a cui si sentono accomunati dalle  condizioni di vita di estrema precarietà e di disagio sociale. Per queste ragioni molti, tra i vari artisti intervistati nel corso della ricerca definiscono il Reggae, il Rap o l’Hip-Hop come stili tradizionali africani in quanto nati in America, ma realizzati da neri afrodiscendenti, “il Reggae è tornato a casa”, è una delle frasi più usate dagli artisti locali.

Un altro aspetto interessante, e non trascurabile in un’indagine di questo genere è osservare come i musicisti ugandesi, si mostrano al mondo attraverso il web, mettendo a nostra disposizioni i video delle loro incisioni o performance dal vivo, manifestando quindi palesemente quali sono i loro canoni di riferimento e i messaggi che intendono far passare. Parallelamente alla musica suonata dal vivo e riprodotta su cd, si è sviluppato, quindi, rapidamente il fenomeno dei video clip. La maggioranza dei modelli riprodotti nei video musicali introducono elementi, sempre forniti dall’universo occidentale, che rimandano a uno stile di vita agiata e di sfarzo ostentato tipico di chi è uscito dal ghetto, stile che si presenta come una sorta di speranza quasi mitica per gli utenti.

Come poter fare un discorso sulla tradizione, sulle radici e su ciò che è rimasto di “originale” nella musica ugandese contemporanea alla luce di quanto sopra esposto?

Gli artisti che lavorano a Kampala, ma anche quelli ugandesi trasferiti a Londra, hanno scelto di non sottoporsi a una manipolazione marginalizzante che li costringerebbe a servire un mercato pressoché inesistente o comunque irrilevante per loro e per le nuove generazioni. L’ossessione dell’Occidente che, sotto alcuni aspetti continua a immaginare l’Africa come un continente immobile ed esotico, non può che portare a una delusione totale e a un senso di spiazzamento. Il concetto di etnico è quanto più di vago sia stato prodotto dall’Occidente che ha attribuito nomi a popoli, manufatti e stili di vita, a persone che non si sognavano neppure di avere. (Quando un amico di Kampala mi ha chiesto perché loro definiscono la musica con il nome del paese di provenienza: musica inglese, italiana, americana e noi quando parliamo di musica africana diciamo musica etnica, non ho saputo rispondere.)

Una questione che scotta: “Non ha paura che il contatto con il Rock possa corrompere la tradizione musicale africana?”

A questa domanda, che più volte ho posto agli intervistati della presente ricerca per cercare una replica al possibile pericolo della disgregazione, aveva già risposto, ormai 20 anni fa, un filo spazientito, Youssou N’Dour, nel corso di una conferenza stampa in Italia del 1990: “Sono nato in una città che si chiama Dakar e sono un artista africano dell’ultima generazione: io esalto l’Africa urbana, l’Africa dei tempi moderni, dei nostri anni. Bisogna che la gente capisca esattamente chi fa cosa: rispetto molto la musica africana tipicamente tradizionale, che non è però quella che faccio io”.

Sempre nel 1990, Marcello Lorrai[5] scriveva in maniera quasi profetica: “Da qualche tempo a questa parte, intanto, la musica africana ha cominciato a scrivere un capitolo che non si può ancora leggere sui libri. In capitali come Libreville in Gabon o Abidjan in Costa d’Avorio, i mercanti straboccano di cassette di Rap: Rap di importazione, Rap americano, ma anche Rap indigeno. Ad Abidjan c’è un gruppo che si chiama RAS che va attualmente per la maggiore in Africa, e al Rap sembrano massicciamente orientate le nuovissime generazioni. Non è la prima volta che le Americhe restituiscono una parte del debito che centinaia di anni fa hanno contratto con l’Africa: in questo secolo l’Africa ha guardato con grande interesse alle conseguenze di quel che aveva contribuito a generare e ne ha spesso fatto tesoro”. Sempre secondo Youssou N’Dour, nella stessa conferenza stampa citata sopra, il Rap viene dall’Africa e gli africani lo sanno fare “meglio degli americani. Ad Abidjan, un’imponente convulsa urbana, e in Costa d’Avorio c’è di gran lunga la maggiore concentrazione di televisori di tutta l’Africa quindi arrivano messaggi da tutto il mondo e la gente assorbe tutto il nuovo. Dove finiscono in questo caso le radici?”

Esattamente vent’anni fa si discuteva, come oggi, di tradizione e di originalità riguardo alla musica e all’arte africana in genere; il dibattito si è evoluto, ma non esaurito, è ancora in corso e propone risultati tangibili in tempi sempre più ristretti. Il dibattito si è adeguato ai ritmi imposti dalla contemporaneità e le sue conseguenze non stanno nelle risposte alla molteplicità di domande che riguardano l’autenticità, l’originalità di un qualunque manufatto esotico.

Ancora nel 2002 Mauro Pagani scriveva: “Quando le musiche del mondo vengono trattate come elemento ornamentale di un impianto compositivo che non si modifica, non cresce e non si fonde con la nuova realtà culturale, allora si sta compiendo un’operazione di colonizzazione artistico-musicale. Al contrario, se invece le musiche del mondo sono trattate con il dovuto rispetto, allora non ci sono limiti alla contaminazione”.[6]

Lasciando qualunque tipo di confronto aperto, è lecito proporre una nuova definizione di autenticità: ognuno è più autentico quanto è più simile a ciò che desidera essere.

Mauro Carosio

[1] J.L. Amselle, Connessioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, P. 14.

[2] Robert Deliége, Storia dell’Antropologia, Il Mulino, Bologna, 2008.

[3] Ugo Fabietti, Antropologia culturale: le esperienze e le interpretazioni, Laterza, Roma, 2005.

[4] S. Sposato, F. Salsi, L’eco Swahili dell’hip-hop, Università di Bologna, in corso di stampa.

[5] C. Stapleton – C. May, Musica africana, un atlante sonoro, Arcana Editrice, Milano 1991.

[6] I. Franchi – E. Guaitamacchi (a cura di), 100 dischi ideali per capire la World Music, Editori Riuniti, Roma, 2002.

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