SEMINARIO A DENICE (AT)
15 MAGGIO 2010
MUSICHE D’ARCHITETTURA
Nel seminario di qualche anno fa vi ho parlato degli inizi di questa nuova ricerca che come spunto primario tenta di approfondire i complessi rapporti che intercorrono tra forma delle cose e risonanza che queste fanno scaturire all’interno della psiche.
Tutto ciò che vediamo o ascoltiamo lascia un profondo segno dentro di noi, una traccia che è stata studiata anche dai neuroscienziati.
Uno di loro, John Onians, afferma che : “…quando leggiamo un libro pensiamo semplicemente di avere imparato qualcosa, ma la verità è che le nostre reti neurali sono state riconfigurate da esso, proprio come potrebbe essere per l’esposizione passiva all’ambiente.”
Concentriamoci ora sul concetto di “esposizione passiva all’ambiente”.
In sostanza se vado a visitare una mostra di pittura e i quadri non mi piacciono non sarò costretto a rivedermeli ogni volta che esco di casa.
Li guarderò (verrò cioè sottoposto/mi sottoporrò a un’esposizione, in questo caso attiva) solo nel momento in cui sfoglierò il catalogo della mostra o acquisterò un quadro per tenermelo in casa.
Ora la stessa cosa può accadere anche con la musica. L’ascolterò se andrò a un concerto, di mia spontanea volontà, o acquisterò un CD e lo ascolterò quando voglio.
Tuttavia ciò non succede quando un rumore violento ci colpisce per strada, uno sferragliare di carrozze ai limiti di una ferrovia ci fa sobbalzare.
I rumori del traffico, anche se attutiti in varie forme, dopo anni di esposizione sugli esseri umani assumono le sembianze di una nevrosi o si somatizzano in una ulcerazione di qualche apparato anatomico, o creano qualche sorta di infiammazione , cioè una reazione dei tessuti dell’organismo a stimoli lesivi, con lo scopo di rimuovere o ridurre i danni.
Essa si manifesta con calore, arrossamento, gonfiore e dolore della parte colpita, a volte con impedimento funzionale. Infiammazione ha a che fare con le fiamme, con il colore rosso e tutti i suoi toni più accesi, il giallo, l’arancio e via dicendo, sfumature tipiche di un incendio, di una deflagrazione, però a dosi omeopatiche, graduate nel tempo.
Una specie di psicosi che agisce con discrezionalità. Ma sempre di psicosi si parla.
Anche le forme dell’architettura possono essere invasive come certi rumori.
Ci colgono inaspettatamente appena passato l’angolo di una strada, ci aggrediscono nel nostro quartiere quando sorgono inattese al compimento di una demolizione.
Ci attendono inesorabili ai confini delle città, aggrappate attorno alle nuove strade che fanno da apripista in quella piccola casalinga foresta che è la nostra, forse ancora per poco, accettabile campagna.
In Inghilterra per esempio non è così. La città è città e la campagna è campagna. Molto più semplice e logico. Nel sud della Francia è un po’ come da noi ma lì hanno molti più soldi da spendere in cose pubbliche e l’effetto non è così sgradevole (i marciapiedi sono quasi perfetti, l’illuminazione pubblica e la sua estetica sono quasi divine) il senso dell’abitare, cioè il desiderio di “abitare bene” e non solo abitare per abitare, come si fa con una tana o un riparo di fortuna, è più sentito. Forse è tutta una faccenda di rispetto per se stessi. Chi ne ha di più e chi di meno.
Leon Krier, architetto illuminato e intelligente, afferma che formulare giudizi sull’architettura e apprezzarne il valore è un problema che riguarda ciascuno di noi esattamente come il problema della qualità del cibo, che ci tocca da vicino quotidianamente.
Piaccia o no conviviamo con gli edifici ed è per questo che al riguardo siamo tutti intransigenti. Giudichiamo l’architettura di continuo, senza compromessi e nel modo più semplice – aggiunge Krier – trovando bello o brutto un luogo, una casa o una città, senza il bisogno di giustificare le nostre scelte se non coincidono con quelle dei critici o degli architetti famosi. Le città, gli edifici storici e l’estetica tradizionale sono generalmente così amati dalla gente, non a causa della ‘storia’, della ‘cultura’, della ‘memoria’ ma più semplicemente per la qualità superiore, per la bellezza evidente, per l’efficienza e la praticità che li caratterizzano.
Come un dolore incessante ottunde la coscienza così la sovraesposizione alla bruttezza intorpidisce il pensiero. La bruttezza è un fatto estremamente raro in natura; la bruttezza ambientale e architettonica elevate a sistema sono fenomeni squisitamente umani.
Abbiamo bisogno di una modalità di percezione del mondo che crei un equilibrio tra natura e ambiente antropico. La città tradizionale, che incarnava tale rapporto con la natura, può aiutarci a capire come poter trovare una via che ci conduca a un racconto nuovo sui modi di edificare e abitare il pianeta.
Questo equilibrio tra ambiente naturale e ambiente antropico è presente in modo evidente nei villaggi tradizionali greci, nelle comunità Pueblo e nelle piramidi Maya dove il paesaggio naturale viene esaltato dalle forme dell’intervento umano.
Per esempio possiamo concepire i templi come un’imitazione del Temenos (una specie di recinto sacro) circondato dai cipressi. Le volute ioniche sono derivate dalla spirale della conchiglia del nautilo, mentre le foglie di acanto adornano il capitello corinzio.
Lunedi 22 febbraio scorso è uscito sul quotidiano “La Stampa” di Torino, nella rubrica ‘arte e medicina’ , un articolo che esordiva così: “Buone notizie! Se la musica classica contemporanea, nonostante l’impegno non la capite potete mettere il cuore in pace. Non è colpa vostra ma del vostro cervello.”
Esso infatti, quando deve analizzare gli imput sonori va in cerca di precisi schemi ritmici e così facendo riesce a distinguere la melodia dal rumore. Il problema è che (come nelle forme dell’arte o dell’architettura) a partire da autori come Schomberg (o Le Corbusier) i compositori di sinfonie contemporanee hanno completamente stravolto l’andamento delle note, infarcendole per giunta di confusi suoni di sottofondo.
Così il cervello non sa più cosa sta ascoltando (leggi: ‘osservando’ nel caso dell’architettura) e fa fatica a classificare quel trambusto come musica (leggi: ‘come immagini sensate e armoniose’) .
La teoria è di Philip Ball, autore del volume : “The music Instinct”, “L’istinto della musica”. Ball ha consultato le ultime ricerche nel campo delle neuroscienze e ha scoperto che il rispetto di certe formule è essenziale per colpire nel segno l’attenzione e provocare un effetto di ‘piacere’ nell’ascoltatore. In caso contrario si rimane spiazzati. Il cervello è un organo che ha bisogno di schemi ricorrenti e cerca sempre di dare un ‘senso’ a ciò che sente o che vede. (vedremo in seguito qualche esempio pratico di forma architettonica poco ‘tonale’).
Musica contemporanea e architettura utilizzano esclusivamente ‘linee orizzontali’.
Da Schomberg in poi - come afferma Annamaria Gheltrito – il concetto di tonalità si è sgretolato così come è accaduto nelle forme artistiche e in architettura.
A questo punto mi sembra interessante accennare ai sei principi biologici della pittura, principi cui obbediscono tutto e tutti, da Leonardo allo scimpanzé Congo, secondo Desmon Morris, antropologo e biologo anglosassone.
1) Il principio dell’attivazione autoremunerativa, per cui l’opera è premio a se stessa;
2) il principio del controllo composito per cui si preferiscono uniformità, simmetria, ripetizione e ritmo;
3) il principio della differenziazione calligrafica per cui lentamente forme e linee si sviluppano distintamente;
4) il principio della variazione tematica per cui un tema viene prima cercato e poi lavorato secondo variazioni successive;
5) il principio dell’eterogeneità ottimale per cui ‘a un certo punto’ il dipinto è finito, completo, adeguatamente carico di colore;
6) il principio dell’ iconografia universale che dipende dal fatto che alcuni movimenti del braccio sono soddisfacenti dal punto di vista motorio, altri no.
Torniamo alla sperimentazione sul campo di forme architettoniche e musicali.
A un gruppo di pazienti è stato presentato questo compito che riferisco sotto entrambi gli aspetti, musicale e architettonico.
A) Musicale B) Architettonico
A1) Ascolto di una semplice melodia e richiesta di individuarne la sua metà, poi ancora metà e così via;
B1) Visione di una struttura architettonica (facciata) neoclassica (armonica) e
richiesta di individuarne divisioni verticali e orizzontali;
A2) In seguito le battute costituiranno un conglomerato caotico;
B2) una volta analizzate, le parti strutturali vengono smembrate per costituire un catalogo di elementi caotici;
A3) richiesta di costruire una melodia su elementi già conosciuti, su un canovaccio noto;
B3) ricostruire la facciata nuova con tali elementi già conosciuti su un canovaccio noto;
Di conseguenza possiamo vedere che si è attuata un’analisi strutturale sia della melodia che della forma estetica, con frasi, semifrasi e inciso, cioè parti della struttura musicale che come i mattoni dell’edificio hanno costruito una base , un piano nobile, un secondo piano, una serie di finestre con timpani e una balaustra, in sostanza i due procedimenti risultano analoghi.
E’quasi come esporsi all’osservazione di un antico palazzo demolito, anzi farlo demolire dal soggetto. Ora l’individuo viene invitato a destreggiarsi con elementi incandescenti che caratterizzano, come avviene anche nella poetica, un processo di distruzione/ricostruzione/edificazione.
La sofferenza sperimentata da chi osserva un antico palazzo in demolizione (o anche una parte di paesaggio) porta spesso a uscite poetiche perché si è stati esposti a elementi traumatici disgreganti.
Questa sofferenza, indotta artificialmente dalla sperimentazione, permette di produrre una riedificazione. Il paziente è attratto da tutto ciò perché in quel posto, il posto della poesis riconosce l’esistenza di una “lavorazione” che avviene anche, o soprattutto, all’interno di sé e di cui egli stesso ne è “lavorato”.
Se una fame eccessiva finisce per uccidere il corpo dovremmo chiederci quale parte del nostro animo la carenza di bellezza e di armonia finirà per sopprimere.
Vorrei concludere spendendo due parole sui tanti volumi di Autori, provenienti da tante esperienze diverse, che mi hanno dato prospettive interessanti sull’argomento. Primo fra i tanti Anthony Vidler con “Il perturbante in architettura” (Einaudi). Vidler è professore e preside della Cooper Union School of Architecture di New York e afferma che è soprattutto ai giorni nostri che il perturbante non soltanto ha assunto il ruolo di fondamentale metafora di una generale condizione di invivibilità ma è entrato addirittura a far parte della strumentazione linguistica del progettista.
Secondo Vidler i progetti e le opere di alcuni tra i più noti architetti contemporanei (Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, John Hejduk) mostrano un volto del tutto diverso da quello disimpegnato e ottimistico che solitamente appare: deformazioni, smembramenti, rotture, ben più che brillanti invenzioni stilistiche , risultano essere lo specchio infranto in cui si riflettono, in modo più o meno consapevole, la perdita di radicamento e l’angoscia oggi dominanti nel mondo.
Tuttavia a mio avviso non si deve essere succubi dell’emozionabilità dell’architetto. Egli è sì un artista ma in più è chiamato a salvaguardare un compito etico che si riassume con l’essere garante dell’abitabilità del mondo. Altrimenti l’architettura contemporanea, come già la musica e l’arte, saranno solo il testo finale di attività terapeutiche (architetturaterapia, arteterapia, musicoterapia) di cui va rigorosamente vietata l’esposizione pubblica dal momento che sono assimilabili a resoconti di sedute psicoanalitiche, di incontri terapeutici, di colloqui clinici.
Un’altra pubblicazione , di Einaudi, ha come titolo “Dove abitano le emozioni” , di Mario Botta (architetto) e Paolo Crepet (psichiatra) . Un libro che illustra il caso italiano come nazione “attapirata” tra città diffusa e carenza assoluta di regole, tra “sarchiaponi” dell’architettura e Gargamella della politica.
Bellissimo il volume , sempre Einaudi, di Rudolf Wittkover: “Palladio e il palladianesimo” che consiglio a tutti e dal quale ho tratto il mediatore del nostro esperimento: uno dei progetti di Colin Campbell che compaiono nel “Vitruvius Britannicus” (1715).
L’Autore ha indagato qui le radici e gli sviluppi del palladianesimo, l’immagine di Palladio e la sua fortuna a partire dall’incontro che valse a determinarla, tra l’opera del grande architetto veneto e l’innovatore dell’architettura inglese Inigo Jones.
Con grande interesse ho consultato il libro di Chiara Cappelletto: “Neuroestetica. L’arte del cervello” di Laterza, che inaugura una preziosa linea di indagine candidata, ormai sono in tanti, a ricompattare l’infelice separazione tra cultura e natura; vedi soprattutto le opere e gli insegnamenti di Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi e del gruppo di psicoanalisti della Pratica Freudiana a Milano.
Infine: “La città come opera d’arte” di Marco Romano, Einaudi e “Città senza cultura” di Giuseppe Campos Venuti, edito da Laterza.
Senza dimenticare ovviamente tutte le opere di Leon Krier e del suo allievo italiano Gabriele Tagliaventi.