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Mussolini. Il Padre e il Poeta (versione integrale) – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 12 marzo 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Mussolini. Il Padre e il Poeta

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Mussolini. Il Padre e il Poeta (versione integrale) – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
Sul far del mattino ancora la testa gli portava l’eco delle rabbiose parole che lui, Mattia, aveva pronunciato per ultime: “Padre, sei un nero bastardo.”

* * *

“Tu vorresti essere un poeta?” Non attese risposta. Subito abbatté sul volto scavato di Mattia un forte colpo di frustino; la guancia gli si tagliò subito, lasciando scoperta una profonda viva ferita sanguinante rosso sangue. Mattia sentì un conato di vomito scavargli lo stomaco, e una vertigine quasi lo buttò a terra; però si ostinò a rimanere in piedi.
Il Padre gli stava di fronte, inflessibile, scuro e terribile come la notte. Pareva immortale, ma anche lui era di carne e sangue. Ed era marcio nel profondo, così tanto che vita e morte non erano più di alcuna importanza né per l’anima né per la ragione ormai deviate da troppo tempo perché lui, il Padre, potesse provare sentimenti di pietà o anche solo di animale umanità per la sua vita e quella altrui.

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Lo congedò, furente, ma non prima d’avergli sputato in faccia, mentre Mattia, fra i denti, l’accusava d’esser un nero bastardo. Il Padre fece finta di non sentire: entrambi credevano che, con tutta probabilità, non si sarebbero incontrati mai più. Mattia si chiuse la porta del bureau dietro le spalle, mentre il Padre lappava con la punta della lingua il frustino ancora fresco di sangue; aveva già deciso che Mattia sarebbe morto in un incidente.

* * *

Entrambi avevano sbagliato a credere che non si sarebbero incrociati un’ultima volta, l’uno di fronte all’altro. Le vie dell’Uomo sono infinite.

Mattia era davanti al Padre morente: sarebbe stato lui a sparare il colpo definitivo, quello che l’avrebbe ucciso per sempre. Prima di trapanargli il cranio con una pallottola pazza, con la stessa pistola che il Padre aveva utilizzato per far fuori i suoi oppositori, Mattia gli sussurrò in un orecchio: “Padre, adesso sei un bastardo rosso di sangue. Forse io non sono un poeta, ma la poesia migliore rimane sempre la giustizia: un umano incidente.” Il Padre ebbe soltanto la forza di guardare la cicatrice sulla guancia sinistra di Mattia, distrattamente, con disprezzo; non disse alcunché, e attese col sorriso sulle labbra che la sua vita venisse consegnata all’eterna oscurità dell’Averno. Il grilletto venne presto premuto senza tanti complimenti: la pallottola scavò dentro, in profondità; e un po’ di materia cerebrale mista a sangue scese lungo la guancia di quello che era sol più un corpo morto.

* * *

“E quand’è che avresti sognato d’uccidere il Duce?”
“Te l’ho detto: è un sogno ricorrente. Ogni notte.”
“E’ da quando hai avuto quell’incidente automobilistico che me lo racconti.”
“Già. Ne sono uscito vivo per miracolo. La macchina era tutta accartocciata su sé stessa, così m’hanno detto. Una settimana in coma. E tre mesi di riabilitazione dopo, una volta che mi sono svegliato. Ma lo sfregio sulla guancia, per quello non c’è stato niente da fare, nessuna plastica.”
“Non è troppo evidente”, cercò di consolarlo l’amico, battendogli una mano sulla spalla: “ti fa più maschio, più duro.”
Mattia si strinse nelle spalle, poi guardò l’amico dritto negli occhi: “Stai mentendo. Ma non è importante.”
“Non pensarci più. E’ passato.”
“L’incidente forse sì. Ma non il sogno. Quello si ripete sempre. E non cambia mai.”
L’amico tentò l’abbozzo d’un sorriso, ma gli venne solo una smorfia che Mattia notò con un certo disgusto: “Tu credi che io sia paranoico, non è forse così?”
”Io penso che hai bisogno d’una donna.”
“Una donna?! No.”
“Perché no? Ti ci vuole una compagna.”
”La spaventerei a morte.” Singhiozzò debolmente, poi aggiunse tutto rattristato: “Sarei capace d’ammazzarla con le mie stesse mani… Quando mi sveglio, dopo l’incubo, ho solo voglia di uccidere. Questo lo capisci?”
“Non hai mai ucciso nessuno.”
”Perché sono sempre stato solo come un cane dopo l’incidente. Sull’altra sponda del letto, al mattino, ad accogliermi trovo solo il vuoto. E un cuscino.”
“Tu hai paura del vuoto. Solo questo. Ti ci vuole una donna.”
”No.”
“Perché il Duce, nel tuo sogno, lo dici Il Padre?”
Mattia sorrise suo malgrado, gravemente: “Perché è il mio genitore. Nel sogno è così.”
L’amico tirò fuori un pacchetto di Nazionali: si accese una sigaretta e ne passò una a Mattia, che l’accettò senza complimenti: “Fanno schifo queste sigarette, lo sai.”
“Costano poco.”
“Non è un buon motivo per fumarle.”
“Forse hai ragione.” Sospirò brevemente. “Che cos’hai intenzione di fare?”
“Niente. Continuerò così, a sognare per il resto dei miei giorni.”
“Una vita di solitudine.”
“O una di sangue e morte sarebbe l’alternativa.”
“Forse è meglio che usciamo dal cimitero.”
Mattia gittò un’occhiata alla tomba del padre: “Era un partigiano, mio padre. E’ morto preso alle spalle. Neanche l’ha visto il crucco che gli ha sparato.”
“Sì, la so la storia.”
“Nessuno si ricorda più di lui. Nessuno sa più il suo nome. Gli sono rimasto solo io.”
“Tua madre si è risposata dopo la Guerra.”
“Era una donna di facili costumi. Dopo la Liberazione, ha pensato bene di rifarsi una vita.”
“E tu non l’hai mai accettato.”
Mattia buttò il mozzicone per terra e lo spense subito con la punta del mocassino nero: “Non ho mai accettato niente: è questa la verità.”
“Andiamo!”. Era un ordine.
Mattia non replicò: si lasciò condurre docilmente al di là del cimitero. Ma dentro, nel cuore, un mostro di emozioni aspettava solo di scoppiare con violenza.

* * *

Il sogno continuava: all’alba si svegliava madido di sudore, febbricitante. Se ci fosse stato qualcuno accanto a lui, sicuramente l’avrebbe preso per il collo. Il fatto che non ci fosse nessuno sull’altra sponda del letto lo mandava in bestia: con rabbia belluina afferrava il cuscino e lo squarciava a mani nude. Ma non serviva a sfogare tutta la furia che aveva accumulato durante il sogno.

* * *

“Certo che sei uno strano tipo tu.”
La ragazza non era un granché: Mattia non le confermò che era proprio così, che lui era proprio un tipo strano.
La guardò distrattamente: era semplicemente insignificante.
“Non ti piaccio?”
Mattia finì di scolare il suo bicchiere di whisky, tranquillamente.
“Mi piaci, sì. Sei carina.”
Mentì.
Un silenzio di due minuti buoni.
“Che fai dopo?”
“Niente.”
“Potrei…”.
Mattia rimase impassibile, in silenzio per mezzo minuto buono prima di risponderle: “Sì, è una buona idea.”
Uscirono dal bar insieme, abbracciati. Mattia la teneva a sé, ma solo per far finta di non essere poi così strano come lei gli aveva fatto notare.

Quando furono a letto, Mattia non fece assolutamente nulla di virile: la cavalcò, però non venne. La ragazza non gliene fece una colpa, ma era delusa; si voltò dall’altra parte dandogli le spalle, e dopo un paio di sospiri ingoiati senza proferire una sola parola s’addormentò profondamente.

* * *

Mai più avrebbe pensato che il cadavere d’una donna insignificante potesse pesare così tanto: erano le sei e presto le strade si sarebbero animate di confusione e businessmen. In ogni caso, per il momento, in strada c’era solo lui e il corpo della donna avvolto dentro a un tappeto orientale. Non senza pochi sforzi riuscì a cacciare dentro al bagagliaio della macchina il fagotto. Poi, tranquillamente, salì dalla parte del guidatore e accese il motore.
Attraversò tutta la città indisturbato, arrivò fino alla frontiera francese: nessun controllo. Lo lasciarono passare.

Al ritorno, uguale: nessun controllo.
Nessuno s’era ancora accorto della scomparsa della donna che con lui aveva giaciuto e che al mattino aveva incontrato la morte senza neanche aver tempo di aprire gli occhi un’ultima volta. Era stato facile, più facile di quanto avesse mai osato immaginare: spezzarle il collo fu questione di un solo singolo momento.

Rientrò quando era già il crepuscolo: ad attenderlo non c’era nessuno, e solo la portinaia lo salutò come sempre. Prese l’ascensore e si guardò nel riflesso metallico delle porte mentre l’ascensore continuava a salire: non si trovava brutto, non gli sembrava d’aver a che fare con un assassino.

S’infilò nel letto e per la prima volta, dopo l’incidente automobilistico, dormì saporitamente senza alcun incubo a tormentargli il riposo.

* * *

“Oggi mi sembri rilassato.”
“Ho dormito bene.”
“Non l’hai avuto l’incubo?”
“No”, tagliò corto Mattia. L’amico non era però disposto a lasciar cadere tanto facilmente l’argomento.
“M’hanno detto che sei stato con una donna.”
“Me l’hai consigliato tu.”
“Sì. Era ora.”
Silenzio.
“La rivedrai?”
“Non penso”, sbottò annoiato Mattia: “non è il mio tipo.”
“Capisco.” Sospirò. “Me l’ha detto la portinaia che sei stato con una donna.”
“Davvero?” Mattia si finse sorpreso.
“Ha detto che non l’ha più vista…”. E lasciò la frase in sospeso, una spada di Damocle sul collo di Mattia.
“Te l’ho già detto: non era il mio tipo. Troppo frigida.” E scoppiò subito in una risata cavernosa.
“Uhm… Peccato.” E così dicendo gli mise sotto il naso il giornale. Mattia lo raccolse: lesse l’articolo, tranquillamente, poi sorrise all’amico.
Il barista li osservava ma con severa distrazione: erano solo due uomini per lui, dei clienti.
“Che intendi fare?”
“Che intendi insinuare?”, sbottò rabbiosamente Mattia.
“Niente.”
“Niente. Bene. Allora offrimi una delle tue Nazionali.”
L’amico gli allungò una sigaretta. Mattia la prese fra il pollice e l’indice, l’osservò, lasciò trascorrere un minuto buono, poi, finalmente, si decise ad accenderla. Fumò in silenzio, mentre l’amico l’osservava.
“E’ filato tutto liscio come l’olio”, ammise alla fine Mattia, spegnendo il mozzicone nel posacenere.
“Tutto?”
“Sì, tutto.”
L’amico si fece serio e s’oscurò in volto: “Ne sei sicuro?”
“Tu non lo dirai in giro.”
“Io non lo dirò in giro, non ce n’è bisogno…”.
Il cuore di Mattia mancò mezzo colpo: “Vorresti forse darmi ad intendere che… Che cosa?”
L’amico rimase in silenzio, ma gli rispose con gli occhi. Mattia li guardò bene quegli occhi che conosceva. E comprese che per lui era finita.
Prima che potesse dire un solo ‘ma’, si trovò incollato al bancone del bar con il volto schiacciato sulla sua superficie. S’agitò, ma le mani che lo tenevano fermo erano troppo forti perché potesse liberarsi dalla loro stretta.

Fu condotto all’aria aperta, ammanettato.
‘Maledetta puttana! Ha fatto la spia, la stronza’,pensò. Il sangue gli affluì tutto alla testa. Si strappò dalla presa dei due poliziotti che lo tenevano. Riuscì a fare due passi, solo due; poi un dolore lancinante gli trapanò il petto e si scoprì in fin di vita, sanguinante, disteso sull’asfalto.
Mentre moriva, l’eco delle sue parole, quelle del sogno, quelle che aveva sparato nel cervello del Padre: “Padre, adesso sei un bastardo rosso di sangue. Forse io non sono un poeta, ma la poesia migliore rimane sempre la giustizia: un umano incidente.”
Spirò.

Piangendo, in silenzio, l’amico gli chiuse gli occhi. Seguì con l’indice tutta la lunghezza della cicatrice che era sulla guancia sinistra di Mattia: sì, era davvero brutta, tanto brutta, indelebile. Poi, tristemente, si allontanò dal corpo dell’amico. E lui lo sapeva che Mattia aveva sempre scritto della pessima poesia quand’era in vita, quando non gli era ancora capitato quel maledetto incidente automobilistico.

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