Stavo uscendo dalla Striscia di Gaza, storia recente. Mi stavo
preparando ad attraversare il fondo a microonde che è il dispositivo di
sicurezza israeliano. Rassegnato, con il cervello a migliaia di chilometri da
li’, perso dietro all’immagine di una spiaggia bianca e un mare azzurro. Calmo
e tranquillo come un maestro di joga. Io dentro a quel forno ci finisco sempre
e ogni volta lo accendono, bombardandomi di onde magnetiche e chissà di quali
altre schifezze per controllare che non abbia addosso chissà che cosa. Forse
per guardarmi dentro la testa, per capire come la penso ogni volta che esco da
Gaza. Potessero davveroi guardarci dentro la troverebbero vuota. Vuota. Quello
che gli israeliani fanno, sul fisico, è un controllo legittimo, non discuto. Vorrei
pero’ che mi spiegassero con che cosa mi bombardano, quali conseguenze avranno
sul mio corpo – sui miei geni – le onde che mi attraversano ogni volta. Quando
tocca a me passare attraverso il forno una volta non basta mai. Ci devo passare
sempre due volte, attraversare una tempesta magnetica che moi mi gonfia la
testa e me la fa rimbombare fino al giorno dopo. E’ successo anche quel giorno.
Prima volta. Non va bene, torna indietro. Seconda volta. Non va bene ancora.
Siediti qui, in questo cubicolo – claustrofobico - e aspetta. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Ho capito in
un istante: mi avrebbero fatto entrare in una camera speciale e mi avrebbero
chiesto di spogliarmi. Avrebbero controllato i miei vestiti e li avrebbero
verificati ai raggi x. Su di me, nudo, avrebbero passato un metal detector. Non
era la prima volta. Ma improvvisamente avevo capito che questa volta sarebbe
stato diverso. Queasta volta avevo un paio di mutande da urlo. Uscendo da Gaza
un paio di mutande cosi’ non le avevo mai portate. Un paio di mutande cosi’ non
le avevo mai avute. Lo sapevo, lo sentivo: un giorno o l’altro mi sarebbero
servite. Le avevo comprate, sbadatamente, un giorno che avevo fatto il pieno di
t-shirt all’H&M. Me le ero trovate davanti alla cassa, mentre stavo pagando:
un bel pacco di mutande, 6 al prezzo di tre. Un’occasione. Nere tinta unita,
nere a righe bianche, nere con del grigio.
Le ho infilate nel sacchetto e poi, un giorno, un paio è finito dentro
la mia valigia: stavo andando a Gaza. Mutande da figurone: eleganti, alla moda,
mi eranocostate 3 franchi ma era impossibile fare la differenza con delle
mutande griffate. Adesso, mentre da Gaza uscivo, ringraziavo la decisione di
averle comprate e di averle indossate quella mattina. Mi avrebbero fatto
togliere i vestiti, mi avrebbero chiesto di mostrare la maglietta, i pantaloni,
di metterli nei raggi x. Mi avrebbero passato al metal detector. Mi avrebbero
trattato come un pezzente. Ma prima – prima! – avrebbero visto quelle
strepitose mutande nere. Non avrebbero potuto non vederle. E anzi, a pensarci
bene, era stata una fortuna, visto da quest’ottica, il fatto che l’essere
poassato due volte dentro il forno friggicervello non era bastato alla
sicurezza. Perché se fosse bastato questo duplice passaggio le mie mutande
nere le avrei indossate per nulla, non le avrebbe viste nessuno. Non vedevo l’ora
di entrare in quella stanza fredda, di toglieri i vestiti, di restare in
mutande, di indugiare con addosso soltanto quelle mutande davanti alle guardie
di sicurezza che si sarebbero occupate di me. Volevo essere sicuro che le
avrebbero viste. E cosi’ è stato. Le mutande hanno fatto colpo. Le guardie sono
rimaste immobili per un attimo, un attimo soltanto, ma mi era bastato. Le hanno
notate e sono convinto che, in quell’istante di immobilità che li ha
sopraffatti, si sono chiesti come fa uno con una faccia come la mia, con la faccia da reporter a
permettersi delle mutande come quelle: mutande d'autore. Un giornalista non potrebbe permettersele, un terrorista nemmeno. Un ladro si'. Ecco: dovevo averle rubate. E' questo il pensiero fulmineo che ho visto attraversare la mente delle due guardie. Avevo addosso soltanto le mutande, ma ero riuscito a vedere dentro la loro testa.
Magazine Società
Stavo uscendo dalla Striscia di Gaza, storia recente. Mi stavo
preparando ad attraversare il fondo a microonde che è il dispositivo di
sicurezza israeliano. Rassegnato, con il cervello a migliaia di chilometri da
li’, perso dietro all’immagine di una spiaggia bianca e un mare azzurro. Calmo
e tranquillo come un maestro di joga. Io dentro a quel forno ci finisco sempre
e ogni volta lo accendono, bombardandomi di onde magnetiche e chissà di quali
altre schifezze per controllare che non abbia addosso chissà che cosa. Forse
per guardarmi dentro la testa, per capire come la penso ogni volta che esco da
Gaza. Potessero davveroi guardarci dentro la troverebbero vuota. Vuota. Quello
che gli israeliani fanno, sul fisico, è un controllo legittimo, non discuto. Vorrei
pero’ che mi spiegassero con che cosa mi bombardano, quali conseguenze avranno
sul mio corpo – sui miei geni – le onde che mi attraversano ogni volta. Quando
tocca a me passare attraverso il forno una volta non basta mai. Ci devo passare
sempre due volte, attraversare una tempesta magnetica che moi mi gonfia la
testa e me la fa rimbombare fino al giorno dopo. E’ successo anche quel giorno.
Prima volta. Non va bene, torna indietro. Seconda volta. Non va bene ancora.
Siediti qui, in questo cubicolo – claustrofobico - e aspetta. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Aspetta. Ho capito in
un istante: mi avrebbero fatto entrare in una camera speciale e mi avrebbero
chiesto di spogliarmi. Avrebbero controllato i miei vestiti e li avrebbero
verificati ai raggi x. Su di me, nudo, avrebbero passato un metal detector. Non
era la prima volta. Ma improvvisamente avevo capito che questa volta sarebbe
stato diverso. Queasta volta avevo un paio di mutande da urlo. Uscendo da Gaza
un paio di mutande cosi’ non le avevo mai portate. Un paio di mutande cosi’ non
le avevo mai avute. Lo sapevo, lo sentivo: un giorno o l’altro mi sarebbero
servite. Le avevo comprate, sbadatamente, un giorno che avevo fatto il pieno di
t-shirt all’H&M. Me le ero trovate davanti alla cassa, mentre stavo pagando:
un bel pacco di mutande, 6 al prezzo di tre. Un’occasione. Nere tinta unita,
nere a righe bianche, nere con del grigio.
Le ho infilate nel sacchetto e poi, un giorno, un paio è finito dentro
la mia valigia: stavo andando a Gaza. Mutande da figurone: eleganti, alla moda,
mi eranocostate 3 franchi ma era impossibile fare la differenza con delle
mutande griffate. Adesso, mentre da Gaza uscivo, ringraziavo la decisione di
averle comprate e di averle indossate quella mattina. Mi avrebbero fatto
togliere i vestiti, mi avrebbero chiesto di mostrare la maglietta, i pantaloni,
di metterli nei raggi x. Mi avrebbero passato al metal detector. Mi avrebbero
trattato come un pezzente. Ma prima – prima! – avrebbero visto quelle
strepitose mutande nere. Non avrebbero potuto non vederle. E anzi, a pensarci
bene, era stata una fortuna, visto da quest’ottica, il fatto che l’essere
poassato due volte dentro il forno friggicervello non era bastato alla
sicurezza. Perché se fosse bastato questo duplice passaggio le mie mutande
nere le avrei indossate per nulla, non le avrebbe viste nessuno. Non vedevo l’ora
di entrare in quella stanza fredda, di toglieri i vestiti, di restare in
mutande, di indugiare con addosso soltanto quelle mutande davanti alle guardie
di sicurezza che si sarebbero occupate di me. Volevo essere sicuro che le
avrebbero viste. E cosi’ è stato. Le mutande hanno fatto colpo. Le guardie sono
rimaste immobili per un attimo, un attimo soltanto, ma mi era bastato. Le hanno
notate e sono convinto che, in quell’istante di immobilità che li ha
sopraffatti, si sono chiesti come fa uno con una faccia come la mia, con la faccia da reporter a
permettersi delle mutande come quelle: mutande d'autore. Un giornalista non potrebbe permettersele, un terrorista nemmeno. Un ladro si'. Ecco: dovevo averle rubate. E' questo il pensiero fulmineo che ho visto attraversare la mente delle due guardie. Avevo addosso soltanto le mutande, ma ero riuscito a vedere dentro la loro testa.
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