di Iannozzi Giuseppe
Alla stazione: il cielo si capovolgeva nello specchio degl’occhiali da sole. Aveva un sorriso largo come il paradiso, ma, anche se nascosti, si intuiva che negli occhi si disegnava l’inferno. Chi gettava una rapida occhiata addosso allo straniero coglieva subito un senso di malessere, perché era uno straniero. E lo straniero continuava a sorridere uguale a un idiota dannunziano con un mazzo di rose rosse in mano, che stonavano come pugno in un occhio addosso al nero del suo completo spiegazzato dal lungo viaggio, dal nero del fumo delle rotaie, dal semplice puzzo d’un vagone passeggeri. Sorrideva ma sapeva che lei non sarebbe venuta: “E’ destino che non venga perché io so che non verrà.” Così pensava mentre lo stordimento della concitata folla impegnata a sciamare fuori dalla stazione lo urtava e spintonava.
Cachinni ignoti si stampavano nella memoria dello straniero che a forza (di che?) tagliava la folla per uscire all’aperto. Fuori non era poi tanto diverso. Continuava a rimanere uno straniero, un sorriso con gl’occhiali da sole. Le rose erano quasi appassite: emanavano un vago sentore di marcio, ma ancora gradevole, romantico. Alla prima fontanella le spruzzò d’acqua, ma non servì a nulla. Il romanticismo era ancora seppellito sui petali delle rose. Sospirò rassegnato. Accese una sigaretta e lasciò vagare il fumo intorno a sé, un fumo stranamente denso che si perdeva con lentezza assurda nella babele delle luci dei semafori, delle insegne illuminate dei negozi, nella cacofonia di quella città dannatamente veloce. Fermo sulle strisce pedonali, le macchine correvano veloci come proiettili: qualcuno avrebbe potuto pensare male, ma lo straniero non era uno di quelli che si lasciano investire dalle macchine perché la giornata gl’è andata storta. In realtà non gl’aveva ancora detto male, e però percepiva nell’aria la tensione, l’istinto animale che presto un mattone gli sarebbe caduto in testa a rovinargli l’ostinato sorriso su quella sua cazzo di faccia tanto simile a una pubblicità. Attraversò la strada per raggiungere il luogo dell’appuntamento: tirava solo un alito di vento freddo, forse vento del Nord. La piazza era grande, il Duomo imperioso. Lui l’avrebbe riconosciuta fra mille se solo non avesse mancato spudoratamente all’appuntamento. Sotto ai piedi aveva sputato una pozzanghera di mozziconi, sigarette consumate, spente sotto il piede nervoso: lasciò cadere anche il mazzo di rose ormai frusto e dall’odore di marcita autunnale. Romanticismo morto. Era giusto. Il cielo s’era spento quasi del tutto; il sole s’era suicidato all’orizzonte dietro a un sipario di nuvole arroganti, nella nobiltà genuinamente borghese del grigio. Lo straniero pensava che forse era il caso di tornare sui suoi passi: percorrere all’indietro la storia che non era stata vissuta per colpa del destino che sapeva. Tuttavia aveva impegnato se stesso in quel viaggio, e di far ritorno a casa con lo stesso sorriso non aveva voglia né desiderio. Prese a vagolare lungo le strade. Avrebbe potuto rifugiarsi dentro a un caffè, sudare una conversazione improvvisata con qualche anonimo a lui simile, però non era da lui darsi via per inventarsi una vita da bar dove tutto è perfetto o tremendamente imperfetto. Preferì allungare il passo, passare oltre gl’inviti nascosti nei caffè; preferì arrampicarsi da solo fino a raggiungere la stanchezza. Seduto su un gradino, sporco, sudato, rideva di gusto perché aveva compreso che anche la delusione è vita. Oh, se la stava proprio godendo! Una ragazza, una mezza punk, gli si parò davanti: chiedeva qualche spicciolo. Finì che le offrì una birra e rimase con lei un paio d’ore a cazzeggiare, a raccontarle storie normali accadute sul serio, e lei gli raccontò Milano. Il sorriso da pubblicità s’era cancellato dalla faccia dello straniero. Tornava indietro ancora con gli occhi nascosti dalle lenti nere degl’occhiali da sole, un pipistrello felice che volava nella notte, verso casa. Fu l’amore più bello della sua vita, comprendere la vita. Solo questo.