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My Name is Hell

Creato il 29 gennaio 2011 da Elgraeco @HellGraeco
My Name is Hell

26 Settembre 2013

Nella tenda, nei pressi delle rovine di Tintern Abbey. Il freddo che sentiamo non è reale.
Fuori, il fuoco non s’è ancora spento, nonostante la pioggia sottile.
Le gocce picchiettano sulla copertura impermeabile.
Alla tenda bisogna abituarsi. Io ci ho passato parecchie notti, molto tempo prima di tutto questo. Lei non riesce ancora a dormire. Per la paura, e perché il modulo ha uno spessore ridicolo.
L’abbiamo fatto come due adolescenti, senza emettere un fiato, coi vestiti addosso, coperti dal sacco a pelo aperto.
Quel momento l’abbiamo rubato. Come se ci fosse suo padre a dormire nella tenda accanto.
Lì invece c’è Jim, il sergente.
Ci ha fatto uscire dal Campo di Canterbury. Ci ha dato un nuovo destino, un futuro.
Quando gliel’ho domandato, lei non mi ha risposto. Quale diavolo è stato l’accordo?
In questi giorni è rimasta attaccata a me, spesso in silenzio. Specie in sua presenza. In pratica mi ha detto tutto, anche senza aprir bocca: lui non fa parte del nostro futuro.
S’è messa a giocare a Piante contro Gialli, sullo smartphone.
Volume azzerato, la testa appoggiata sul mio petto. Le passo una mano tra i capelli. Non dormirà neanche stanotte.
Jim è un Sergente Istruttore. Mi può spaccare il culo anche con un braccio solo e allo stesso tempo fumarsi una sigaretta, così, per sfizio.
Io sono solo un blogger. Quando gliel’ho detto, giorni fa, del blog e che in rete mi facevo chiamare Hell, s’è messo a ridere. Poi l’ha fissata. E lei ha ficcato un braccio sotto al mio.
Cazzo, non avrebbe dovuto farlo.

Una manata sulla tenda. Mi sveglio. La voce di Jim dice che è ora.
Guardo il display illuminato d’azzurro dell’orologio. Sono le quattro del mattino. Ci prepariamo. La febbre m’è salita di nuovo. Merda.
Quando monto sul Land-Rover, sedile posteriore, per poco non vomito.

Le sospensioni sono morbide, come l’imbottitura. Le nuvole di là del vetro scivolano veloci sul cielo scuro.
Jim al volante. Capelli biondi, stempiato, tagliati cortissimi. Fisico da figlio di puttana della British Army. Andiamo a casa sua a prendere le armi e un altro po’ di scorte. Ha deciso così. A quest’ora, dice, è meglio per via della brina. E perché l’esercito avrà già controllato al suo indirizzo da un pezzo. Se non hanno avuto da fare con la marea di stronzi gialli. È un disertore.
Nel bagagliaio c’è la carne, cinquanta scatolette, quella che lei può mangiare. Ci ha pensato lui. Ha pensato a tutto.
La mano sinistra di Jim poggiata sul cambio. La quinta marcia.
Il braccio destro di lei si allunga verso quello del militare solo per un attimo, poi la mano ritorna a posarsi sulla propria gamba, da dove era partita. Volta solo la testa, dalla sua parte.
Io invece incontro lo sguardo dell’uomo nello specchietto retrovisore. È solo un attimo. Sto sudando. Forse se n’è accorto.
Il Land-Rover imbocca un viale alberato di una zona residenziale. Jim racconta che si erano trasferiti lì da poco più di un anno, durante l’estate, lui e la sua famiglia.
Accosta e lascia il motore acceso.
Strada sgombra, a parte qualche auto parcheggiata, e illuminata. Ville adiacenti, al buio. Solo una con le finestre accese, a una cinquantina di metri.
Le dice di attaccarsi al clacson, nel caso peggiore. Lei annuisce. Scendiamo.

My Name is Hell

Ho bisogno di andare in bagno. Mentre lui apre la vetrina dei fucili mi fa presente che, già che vado di sopra, devo guardare dietro lo scarico del cesso. Ha nascosto la pistola proprio lì.
Resto a fissarlo. Mi dice di muovere il culo. Alla svelta.
Ai piedi della rampa di scale, su una console di legno scuro, scorgo la foto di famiglia, in una cornice d’argento. Jim, la moglie bionda e il figlio.
Salgo.
In bagno, accosto l’orecchio alla finestra che dà sul retro. Il motore è ancora acceso.
Poi mi accovaccio abbracciando la tazza. Vomito. Guardo verso l’alto, dietro il cassettone metallico dello scarico, dove ha detto lui. C’è attaccata una cassetta più piccola, con una calamita. Tiro lo sciacquone.
Al lavandino, faccio scorrere un po’ d’acqua, gelida, e me la butto in faccia a piene mani. Mi guardo allo specchio. Sono pallido. Do un’occhiata nello stipetto: ci sono pettini, spazzolini, boccette di pillole, cotton fioc, schiuma da barba, lamette…
Deglutisco un paio di volte. Lo devo fare adesso.
Afferro la cassetta di metallo dietro lo scarico e scendo.
Jim ha sistemato due fucili in un borsone da cui spuntano le doppie canne. Anche le cartucce. Un’altra doppietta me la porge mentre io gli passo la scatola. Dice che l’ha caricato. Sa benissimo che lo so usare…
La apre. La 92FS che ne spunta l’ha vinta a carte a un pari grado americano, sostiene. Mi mostra come si arma. Scarrella e abbassa il cane.
Sto per svenire. Un po’ è vero, un po’ faccio finta. Lascio andare il fucile. Mi aggrappo a lui, passandogli un braccio, il destro, intorno al collo. Non spara. Mi aiuta, invece…
Lametta tra pollice e indice. Basta una carezza.
Gli schizzi della sua giugulare arrivano cinque metri più in là, fin sulla tenda. In un attimo questa diventa un quadro di Pollock.
Si accascia lento, mettendosi la mano al collo. Con l’altra si attacca alla mia camicia, portandosi dietro due bottoni. È scosso da fremiti. Sibila qualcosa. Mi piego su di lui e glielo ripeto, sussurrando al suo orecchio: my name… is Hell.
Mi pulisco la mano del sangue, sul suo maglione scuro.
Mi appoggio al muro. Ho un altro paio di conati. Stringo i denti e mando giù.
Dopo prendo la Beretta, finita sul pavimento. La getto nella borsa.
Afferro quest’ultima e imbraccio la doppietta. È un 471 Silver Hawk. È carico. A salve. Figlio di puttana.
Fuori, il clacson inizia a suonare.

Mi guardo intorno. Sono tre, ancora lontani. E vanno lenti. Tra loro un ragazzino e un tizio in vestaglia e pantofole. Stesso colore delle luci giallo ambra del viale.
Torno in auto. Le passo la Beretta.
Non fa domande.
Brava ragazza.
Di tutti i film che ho visto, in questo momento mi viene in mente una scena sola, Sarah Connor che incide col coltello una scritta: NO FATE. Nessun destino.
Accendo la radio. Dentro c’è un CD.
Parte.

***

My Name is Hell

30 Settembre 2015

Dev’essere ancora nel cassetto della mia scrivania. A casa, in Italia. Se gli sciacalli non l’hanno trovato: l’anello di fidanzamento che non le ho mai dato.
La lasciai davanti al portone di casa sua, dopo averla riaccompagnata. Una serata al cinema. Vi presento Joe Black. A lei piacque. Era tutto perfetto.
E invece no, era tutto sbagliato.
Poi ne acquistai un secondo, a Londra, nell’Ottobre del 2012. Soldi di Richard, ragazza diversa.
Ci misi un po’ a convincerlo, sentendomi dire che stavo facendo una cazzata. Bullshit, credo fosse il termine che usò.
C’era molta paura nell’aria. Il fato.
C’era paura anche nelle strade. Halloween venne vista come una profanazione, tanto da non essere celebrata e da suscitare violenza contro coloro che, al contrario, volevano abbandonarsi a essa, carpirne infine la sua vera essenza pagana.
Hakkasan, Londra, Safety Zone 013. Menu senza glutine.
Musica d’ambiente, legno di quercia sotto i nostri piedi. Lanterne da cui scendeva luce ocra soffusa.
Zooey era bellissima. Sorridente e ansiosa. L’ansia proveniva dagli states. Dal marito che era rimasto laggiù. Camicetta bianca, pullover nero di cashmere. Fede e anello di fidanzamento con brillante ancora al dito. Qualche decina di migliaia di dollari, almeno.
Non avevo intenzione di far nulla. Non quella sera. Però continuavo a toccare la piccola scatola nella mia tasca.
Mi chiese, dopo aver assaggiato del vino bianco, perché non fossi riuscito a concludere molto, nella vita.
Non mi offesi. Non era uno sfottò, ma una domanda sincera.
Feci spallucce. Il mio cervello è sempre andato più veloce del mio corpo. E ha sempre finito col restare solo, lasciando tutti gli altri indietro.
E poi, qualcosa mi sembra di averla conclusa, adesso, le dissi.
Mi prese la mano. Sorrise. Un sorriso e un gesto gentili. Nulla di più. A parte i suoi occhi perfetti, che quando mi guardavano mi facevano le ginocchia molli.
Smisi di tastare il cofanetto.
In quell’istante dissi a me stesso che non ci sarebbe mai potuto essere nulla, tra noi due.

My Name is Hell

C’è un villaggio chiamato ***. Lì c’è ancora qualcuno. Ci sono andato con il fuoristrada per cercare delle assi con cui riparare il tetto del rifugio, danneggiatosi dopo un acquazzone. E per riuscire a barattare qualche lepre e un paio di fucili con un po’ di benzina.
L’estate è finita. La Quarta.
È ancora pericoloso muoversi, ma qui intorno i gialli sono sempre meno, di pari passo coi sani. Da noi non arrivano quasi più. Ci stiamo estinguendo, insieme. La benzina mi serve subito, prima che faccia freddo sul serio.
Li ho scorti da lontano, che ero ancora sul vialone d’ingresso al paese. Merda.
In tre intorno a una ragazza. La stavano sbranando.
Ho fatto inversione. Mi avevano già notato.
Troppo distanti per impensierire me o il veicolo.
Hanno iniziato a correre.
Ho imboccato una viuzza alberata che taglia in due il bosco, lungo un torrente. Curva troppo veloce. Sono uscito fuori strada.
Il tempo di capire che non mi sono fatto niente. E che da quel fosso il fuoristrada non sarebbe venuto via. Ho preso solo un fucile e lo zainetto, lasciando tutto il resto. Le loro urla mi hanno raggiunto. Furiose e schiumanti.
Ho tagliato passando per il ruscello sottostante la carreggiata, bagnandomi fino al petto, fucile e zainetto sollevati sopra la testa.
Sono andato verso est, almeno per cinque, sei chilometri, alternando corsa a passo veloce, il più lontano possibile dal rifugio, aspettando che le urla sparissero e continuando anche dopo.
Dietro alcune rocce mi sono spogliato e ho approfittato delle ultime ore di luce per riscaldarmi. Poi ho acceso un piccolo fuoco.
Sono rimasto lì, sveglio, per tutta la notte, muovendomi per non morire di freddo e di terrore.

Mezza giornata per tornare. Al mio arrivo, la trovo con gli occhi azzurri gonfi di pianto.
Mi viene incontro, poggiandomi la testa sul petto. La stringo. Le domando scusa. Tento di spiegarle cosa è successo.
Dopo pranziamo. Qualche scatoletta di legumi e frutta secca. Io pulisco i sovrapposti e preparo qualche cartuccia. Lei si distrae leggendo i quotidiani locali dell’Australia sul tablet. Sembrano provenire da un’ucronìa.
Più tardi siamo fuori, seduti insieme, la sua spalla contro il mio petto. La stringo ancora. Guardiamo il panorama. Il fucile posato a terra, lì accanto.
Domani sistemerò le assi del tetto. Deve darmi una mano.
Si volta a guardarmi. Fa le labbra piccole e mormora qualcosa.
Sono due mesi o giù di lì...
È incinta.
Ce ne stiamo lì ancora un po’ in silenzio, fino al fresco della sera.

***

29 Gennaio 2016

Dopo aver visto i cani, abbiamo deciso di non accendere il camino neanche di notte.
Siamo a corto di benzina. E non voglio usare la riserva del fuoristrada per il generatore. Spostarsi potrebbe diventare una priorità.
Ragion per cui, la mia presenza in rete potrebbe cessare a breve. Non che importi ancora. Nell’ultima settimana ho contato solo 2 visitatori. E con l’estate prossima le visite potrebbero cessare del tutto. Là fuori sono quasi tutti morti. O, se ancora ci sono, si tengono ben nascosti. O se ne stanno al caldo in Australia o sotto il tacco di Cameron, qui accanto.
Ci sono dei pannelli solari, ma bisogna montarli. Da solo non ce la faccio. Non con questo tempo.
Ho trovato una vecchia utilitaria. L’ho spinta, sistemandola a una quindicina di metri dalla nostra porta d’ingresso, dall’altra parte della strada, nella direzione d’arrivo più probabile. Sul sedile anteriore ci ho piazzato una sorpresa, in modo che sia visibile dalla finestra di casa nostra.
Se qualcuno dovesse arrivare fin qui, basterà sparare. I pallettoni, a quella distanza, fanno il loro lavoro. Poi tocca al gas. E al fuoco.
Ultima risorsa.

Per due giorni non s’è visto nessuno.
Eppure quei cani sono arrivati da qualche parte. Tutti insieme e ben nutriti.
Il terzo mi sono deciso ad andare a caccia, in montagna. Mattinata secca. Visibilità ottima. Ho percorso chilometri. Il costato va meglio. E anche il viso.
Zooey è in paese, sola, ma armata. Ormai sa sparare bene.
Abbiamo individuato un buon nascondiglio, in caso di visitatori inattesi. L’ideale è restare invisibili.
Mi sono imbattuto nei resti di un cervo. Sbranato. Le tracce sulla neve non lasciano dubbi: è stato il branco incontrato la settimana scorsa.
Mentre ero lì l’ho avvistato. Un filo di fumo nero e denso.
Distante circa mille metri, in linea d’aria. Sul pianoro intersecato dalle provinciali. Dal nostro villaggio saranno almeno una decina di chilometri, forse di più.
Non siamo così soli come credevo.

My Name is Hell

Strada provinciale stretta. Due corsie. Da Google Maps, su quella strada risultano affacciarsi terreni coltivati e pascoli. Almeno cinque abitazioni di varia grandezza. Riesco a distinguerle tutte. Non scorgo alcun movimento.
Per un po’ procedo a passo veloce. Poi mi abbasso, nascondendomi dietro i cespugli.
È un mucchietto di pneumatici, a bruciare, sulla carreggiata innevata. Almeno quattro. Per terra ci sono anche dei cani. Immobili, con del sangue ghiacciato intorno. E quello che sembra un carro rovesciato. Più in là ce ne sono altri due, nelle stesse condizioni. Rudimentali, di piccole dimensioni, ricavati da parti riciclate da altri veicoli. Si muovevano su ruote, trascinati dai cani, penso.
C’è anche un corpo umano nudo, riverso e coperto anche questo di sangue rappreso. Non riesco a determinarne il sesso.
Torno indietro.
Aspetto un altro paio d’ore, a osservare. Non credo mi abbia visto nessuno. Troppo elaborata per essere una trappola.

S’è ricavata un riparo usando parte del carro ribaltato e del telo antipioggia con il quale avevano foderato quello che trasportavano. Quando mi avvicino sento il tanfo. Accanto a lei è rimasto un cane dal pelo bianco. Non appena mi scorge inizia a mugolare e a scodinzolare, le orecchie talmente piegate sulla testa che quasi non si vedono. Più impaurito persino di quanto lo sia io. Di sicuro più affamato. Eppure, affezionato a lei tanto da non abbandonarla.
L’altro deve averlo sventrato lei stessa, dopo averlo attirato a sé. I suoi piedi sono dentro la pancia dell’animale. Il cattivo odore viene da lì.
Le mani sono ricoperte con le interiora. Nella destra stringe un coltello.
Metodo niente male, per evitare di perdere le dita.
Tenta di colpirmi con un fendente, come a rallentatore, poi perde i sensi.
Pelle del viso livida, sporca di sangue di cane e anche del suo. Occhi azzurro chiaro, capelli rossi. Sulla ventina, forse qualcosa in più. Deve essere di queste parti. È stata picchiata e… le hanno fatto dell’altro. Labbra spaccate dal freddo. È in ipotermìa.
Le verso un po’ di whisky sulla bocca dalla fiaschetta di metallo. Non so se faccio bene. Non ho tempo di controllare la corretta procedura in rete. Forse la riscalderà un po’.
Glielo faccio bere ogni volta che mi fermo per riposarmi e alterno quello con l’acqua della borraccia. La porto in spalla. Peserà poco più di quaranta chili. Il dolore alle costole è sopportabile. In ogni caso, l’ho caricata dal lato rimasto sano.
Gli abiti che porta sono troppo grandi. Appartenevano all’altro cadavere, un uomo di mezza età.
Ne ho trovato anche un secondo. Una donna. Stessa età dell’uomo. E tutta una serie d’impronte. Gli aggressori si muovevano a piedi, come me. Diretti verso nord. Si sono allontanati.

My Name is Hell

Il cane bianco mi ha seguito. È molto affettuoso.
La ragazza è ridotta male. Ora ha la febbre alta. Non so se ce la farà.
Mi ha ringraziato per averla salvata. Ha detto di chiamarsi Maeve.
Siamo costretti ad accendere il fuoco per lei, ma solo di notte.
Dormo poco.
Di giorno, io e Zooey ci concediamo uscite guardinghe.
È riuscita a scattare qualche bella fotografia.
Questa è la chiesetta del paese, dall’interno. Dubito abbia un qualche valore artistico. Sembra di epoca piuttosto recente.
Mancano le panche. Tutte. Forse le hanno bruciate durante uno degli scorsi inverni. Forse hanno eretto barricate durante le estati.
È un posto tranquillo. Quasi bello.

Zooey ha controllato la posta elettronica di entrambi, mentre canticchiava Sugar Town. Non glielo sentivo fare da un pezzo. Mi dà i brividi.
Le piace leggere le mail di spam. Le danno un senso di falsa normalità.
Ma stavolta, nella mia c’era qualcosa di insolito.

fine linee temporali 2013/2015
fine decimo episodio

Altre pagine QUI

Per l’idea delle mail di spam:
Zeros

[credits: Jackson Pollock, n. 4, 1948, Grigio e Rosso]

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