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My Name is Khan (Festival di Roma 2010)

Creato il 08 novembre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Ambientata all’ombra di una grande città americana, la storia di My Name is Khan ha i toni di un romanzo d’amore fino al momento in cui una serie di eventi cambia il corso della vita dei protagonisti e mette a serio repentaglio la loro felicità. Rizwan Khan è un musulmano affetto dalla Sindrome di Asperger: una particolare forma di autismo. Lui si innamora di una bella parrucchiera Hindu (Mandira) anch’ella trasferitasi in America. Purtroppo, un lutto distrugge improvvisamente la loro felicità.

Provate a immaginare che cosa possa accadere quando l’azione di un sol uomo, in cerca di perdono e dell’amore perduto, arriva a ispirare cuori e menti di una nazione ferita, al grido di: “Il nome è Khan e non sono un terrorista!”.

Il quarto film Karan Johar, presentato nella sezione “Eventi speciali” al Festival di Roma, ha riscosso ottimo successo in patria, dopo aver partecipato fuori concorso al Festival di Berlino 2010. Esso si attesta come una grande ed emozionante favola del presente in salsa bollywoodiana, che punta dritto ai facili sentimenti, con vari luoghi comuni tipici della moderna cinematografia indiana. Tuttavia, malgrado gli infiniti e melensi polpettoni targati made in India, questo film si distingue e di molto dalla maggior parte delle pellicole prodotte in questo paese negli ultimi anni.

L’attore principale (Shah Rukh Khan) è un autentico simbolo della cultura pop indiana, “indimenticabile” protagonista di uno dei più celebri colossal di Bollywood: Devdas (2002) di Sanjay Leela Bhansali. Come da copione, egli interpreta anche in questo caso un ruolo drammatico e sofferto. La storia comincia in modo davvero esaltante, essendo quasi una “cadenza d’inganno”, per dirla con un vocabolario musicale: lo spettatore è indotto a pensare che si tratti di una vicenda di morte e rancore, per poi venire catapultato in un’India povera e felice, dove la gente ha veramente poco, ma vive i sentimenti con passione e semplicità.

In Occidente abbiamo spesso dei preconcetti verso l’Oriente di oggi, giudicandolo come una versione crudele e approssimativa del nostro modo di vivere, ritenendo questi popoli talvolta persino incapaci di affrontare i temi scottanti della contemporaneità; figuriamoci poi se si tratta di un film di Bollywood! Tuttavia l’opera di Karan Johar non commuove solamente, ma fa principalmente riflettere, e poco importa se lo fa con le ingenuità e gli stilemi propri alla cinematografia indiana. Tanto per fare un esempio, la storia ci regala una prospettiva diversa del post 11 settembre, mostrando come questo terribile evento sia stato anche una tragedia per i molti musulmani abitanti in America, a causa delle gravi discriminazioni e persecuzioni a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle. Purtroppo alcuni drammatici automatismi sociali generano il più delle volte una confusione tra il Bene e il Male ed è proprio di questo di cui parla il film.

My Name is Khan si dimostra una storia coraggiosa nell’affrontare problematiche gravi quanto delicate, che lacerano di continuo le nostre società: l’incontro/scontro di civiltà, il terrorismo, l’autismo, dunque la ‘diversità’, e persino la difficile integrazione dello straniero nel mito americano che – per quanto ormai rivelatosi in buona parte fasullo – sembra persistere in alcune culture in pieno sviluppo come quella indiana, ad esempio.

Le musiche sono molto coinvolgenti anche se rientrano pienamente nella coralità di suoni talvolta drammatici, altre volte gioiosi, tanto amati dagli autori di Bollywood. Malgrado ciò, vengono usate con sobrietà e solo in quelle scene dove il pubblico indiano non potrebbe proprio farne a meno.

Molti converranno sul fatto che il problema di fondo di Bollywood è che non sia in grado di rappresentare la realtà. Con My Name is Khan questo postulato viene, almeno in parte, ‘scalfito’. Sebbene la Mecca del cinema indiano sia interamente votata a una produzione d’intrattenimento puro, con una continua rappresentazione estetizzante e patinata del mondo, la pellicola di Karan Johar dimostra invece di avere il coraggio di guardare e riflettere sulla società di oggi. Difatti il film ci suggerisce considerazioni utili sul modo di vivere degli ‘altri’, non importa poi se questa alterità sia dovuta alla religione o a un handicap mentale, e conta ancora meno il fatto che tutto questo avvenga attraverso una narrazione fluviale, al cui centro c’è il dramma di un uomo talmente buono, da risultare a tratti poco credibile. Nel rivendicare il proprio nome e la propria onestà, Rizwan Khan ci insegna a non tirarci indietro nell’attestare la nostra unicità, per quanto piccola possa essere, nella fredda omologazione del villaggio globale.

Riccardo Rosati


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