Magazine Diario personale

My Name is Wolf (o: del risolvere i problemi)

Creato il 29 gennaio 2012 da Povna @povna

Quando la ‘povna era ancora la prof. ufficiale dell’Onda (ché, oramai son passati già tre anni), durante gli esami di settembre, proprio perché li amava molto, il suo voto fu determinante per deciderne la bocciatura (doverosa) di parecchi. E nel mucchio delle teste che in quella mattina caddero finì anche quella di Campanellino. Nonostante molti e ripetuti tentativi di rimonta, la verità è che la sua alunna aveva passato l’estate in diverse e più dilettevoli faccende, con il risultato, inevitabile, di tre esami di riparazione che tradivano, variamente, varie specie di lacune. Fu la ‘povna (è ovvio) a dovere avvisare la sua mamma, per telefono. Con profondo dispiacere. “La ringrazio, ‘povna, mia figlia se la meritava tutta” – le disse lei, triste, ma convinta, dall’altro capo della cornetta – “le chiedo solo che sia rimessa in una classe dove lei possa seguirla. E, mi raccomando, trasmetta le mie scuse e i miei ringraziamenti anche agli altri professori”.
La ‘povna eseguì a puntino le consegne; e così Campanellino, il primo giorno di scuola di settembre, si trovò trapiantata tra i Bufali dell’Orda, dove si trova ancora adesso, con buone soddisfazioni. Ma – prima di giungere all’attuale idillio – dovette ripetere per intero la seconda, che attraversò tra burrasche e venti di tempesta, vivendo la sua quindici-annite contestante con consapevolezza piena.
Va detto che Campanellino ne passò davvero tante: alcune lievi, altre pericolose e pese. E la ‘povna – così come stabilito e promesso – passò diversi pomeriggi insieme alla sua mamma, per cercare di alimentare quel cerchio di consapevolezza per toglierla, e poi sostenerla, dal ciglio del burrone. E poi, se dio vuole, arriva per tutti il momento di salutare i quindici anni. Campanellino diventò più grande, e seppe piano piano colorare con sfumature di originale saggezza la sua già bella persona. La ‘povna, dal canto suo, raccattò da tutta la vicenda una specie di medaglia: perché la mamma di Campanellino si convinse che lei poteva tutto (mentre in realtà lei pensa – secondo l’idea di scuola che sogna e un po’ pretende – che fosse sostanzialmente il suo dovere).
Tutto questo è tornato alla mente della ‘povna con intensità potente quando il suo cellulare è suonato durante Otto e mezzo, verso le nove di sera.
“Pronto, buona sera, parlo con la professoressa ‘povna? Sono Iaia, sa, l’amica di Ortensia, la mamma di Campanellino”.
“Buona sera Iaia, mi aveva detto, Ortensia: sono pronta ad ascoltarla”.
Segue il resoconto delle vicende di sua figlia Jessica, al primo anno di liceo (in una scuola rivale di quella della ‘povna), che ha preso una brutta piega. La telefonata finisce, poco dopo, con l’impegno di vedersi di persona, l’indomani pomeriggio. E la ‘povna sa bene che in realtà lei non è Wolf, e non sa davvero risolvere un bel nulla (e oltre tutto Jessica non è nemmeno una sua alunna). Eppure pensa che dovere dell’insegnante sia anche quello di tornare a esercitare nella società una funzione di incoraggiamento e di consiglio. E chi se ne importa se deve aspettare un po’ di più prima di ripercorrere, verso casa, i suoi 50 km. Perché troppe volte le passano sotto gli occhi modi davvero vergognosi di intendere il concetto di docenza; mentre dall’altra parte c’è un sacco di gente che ha talento, in coda, che non può, e vorrebbe fare. E allora – si trova a pensare sempre più spesso – chi vuole timbrare il cartellino dopo le ore di lezione (o di preparazione, o correzione) e dedicarsi legittimamente ad altro, può pure abbandonare la cattedra, senza reciproci rimpianti, e accomodarsi verso un diverso, più semplice, lavoro.

ps. questo post le è stato sollecitato, indirettamente, dalla lettura di alcuni racconti di sue colleghe blogger. E vuole essere un modo – per quanto un po’ indiretto – di riprendere e ampliare la discussione.


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