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My son my son what have ye done

Creato il 15 ottobre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Tra interpretar un ruolo e recitare una parte, si dipana lo stanislawskiano destino-incubo del non riuscire ad uscire dal personaggio. Sempre latente fobia, questa dell’attore e di chi ci gira intorno, del non riuscire a staccarsi da quel che si è stati, del non sapere separare più ad un certo punto i livelli, del non poter far altro che confondere e fondere finzione e realtà (quant’è lontano qui quel vertice d’auto-ironia del non poter-voler entrare di ben altra e beniana caratura). Ci si attarda, o così dunque sembra, nella creduloneria del venir fagocitati da una mente più forte dell’IO.

Nell’ultmo Herzog, quello presentato a sorpresa all’ultima kermesse cannense, siamo dalle parti del più lynchano degli universi interiori, lì dove sottile arriva l’inganno che si cela dietro l’apparenza, lì dove il mistero si mescola con il più ambiguo e perturbante degli atteggiamenti, dove lo sguardo presuppone che nelle retrovie dell’azione ci si nutra di nefandezze inconfessabili.

Una San Diego disidratata d’azione, sospesa nella parodia di sé stessa e d’un genere, la crime story (quella di serie ben indicate nei giubbotti antiproiettile dei gendarmi, ovvero CSI e Swat più che altro). Una frontiera messicana onirica. Un confine labile tra veridicità della finzione e falsità del reale (o viceversa).

Un omicidio-matricidio di cui è platealmente scontato il colpevole fin dall’inizio (a ribadire ancora che non importa cosa racconti ma soprattutto come (non) lo fai), quello commesso da Brad (Michael Shannon), novello tragico Oreste con sulle spalle – causa tentativi amatoriali di far meno di quello che si è davvero: l’attore di un testo già scritto – la morte del padre da vendicare e una repentina follia partorita sulle rapide di un fiume peruviano in piena. Un fuoriuscito da ogni protocollo della ragione, barricato in una casa che la mdp esplora solo attraverso i flash back e altrimenti osservato nella sua bizzarra tinta rosa, con un’ossessione per i fenicotteri di ogni fattezza, convinto da profetici sussurri d’aver intravisto e scoperto un Dio dalle fattezze d’un gioviale candido volto da scatolette di cereali (e in effetti genialmente Dio non potrebbe esser ritratto come testimonial di una multinazionale della fede a scopo di lucro).

Dell’Herzog più visionario ci sono scampoli spezzettati, quelli in cui la portata documentaria delle immagini prende il sopravvento e surclassa qualsivoglia prestazione attoriale: così è quando la mdp si inoltra tra i volti dei vecchi peruviani, oppure quando l’obiettivo si inoltra tra gli struzzi, giocando smaccatamente con con quello che più di tutto sembra mancarci (e marcarci stretto quando c’è), quel Tempo che Brad rivela a più riprese essersi cristallizzato in una parola: ora!

Per il resto il sublime” caro al regista tedesco resta celato da un’impalcatura hollywoodiana, con Wilem Dafoe calamitosa stella della pellicola dotata di pacata inquietudine, di quella che emerge dalla quasi impercettibile ma decisiva eversione della norma comportamentale, quella che porta a diventare infidi ingestibili incontrollabili, anomalie visive a d’azione designabili come quegli scarti dal protocollo che lo stesso commissario Dafoe nomina più volte tanto da farci pensare ad una parodia della diligenza (intesa qui come eseguire bene gli ordini).

La mdp non compie acrobazie, rallenta, segue i dettagli insignificanti. Non si urla, non c’è sangue, non sale l’adrenalina. La tragedia si svolge con congelato pathos, in silenzio, come se si trattasse di prove (quella della vita reale) d’uno spettacolare evento che è ancora di là da venire.

Orrorifica è la nostra contorta testa più che il macellarsi meccanico e animale di corpi (umani?) in finta prescritta scena.

Salvatore Insana

 


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