Dobbiamo destreggiarci in un territorio pieno zeppo di ostacoli come lo sono i documentari fittizi. L’area di movimento concettuale si presenta unica (una storia reale) e duplice (anche una storia finta) allo stesso tempo, vieppiù che Apichatpong, sebbene ancora a digiuno di cinema da sala, declina la sua arte nella solita maniera destabilizzante.
L’architrave è un principio narrativo chiamato “gioco del cadavere squisito” dove un racconto nasce e vive in un passaggio di bocca in bocca, di persona in persona, senza che vi sia continuità di conoscenza tra i vari storytellers.
Immediatamente il pensiero va alla struttura bipartita (e sfuggente) di Syndromes and a Century (2006) che nel suo rivelarsi allo spettatore esibisce un taglio deciso del narrato dividendolo in due corpi eterozigoti legati però da un laccio spazio-temporale unificante. Chiaro che MOaN potenzia questa (sud)divisione del racconto sbriciolandolo in un mix non privo di fascino ma anche – al solito – di disorientamento. Ad ogni modo se si vuole vedere in questo film tracce del futuro Weerasethakul direi che non bisogna allontanarsi dalla complementarietà dicotomica tra fabula e sjuzhet perché, un po’ come accade in Twentynine Palms (2003) di Dumont, pur annullando i canonici vincoli della narrazione, alla fine nel cinema si finisce sempre per raccontare qualcosa.
Come scritto poc’anzi, abbiamo a che fare con una storia che a livello macro è suddivisa in due strati: il primo è quello documentaristico con l’obiettivo del regista che sollecita al racconto, e il secondo è la fiction con il materializzarsi del suddetto racconto sullo schermo. Così facendo la storia tout-court troverebbe carburante pressoché illimitato per continuare ad essere tale, eppure Weerasethakul dalla vicenda fantastica del ragazzo storpio sposta sempre di più l’attenzione sui singoli cantastorie, tanto che il finale ideato dalla mente di un bambino (geniale!) ha una deriva fantascientifica che non viene riprodotta. Resta una carrellata di esseri umani nella Thailandia meno conosciuta, l’affondo sociale è più che altro uno sguardo, comunque significativo, vedi la donna che all’inizio dice di essere stata venduta dal proprio padre in tenera età.
Nel complesso abbiamo un movimento tipicamente weerasethakuliano dal principio enigmatico e contrastante, alla fine ho visto un film che mi è piaciuto e che in fin dei conti non mi è piaciuto.
Segnalo la recensione di Dario Stefanoni (link) bussola indispensabile per le poche righe da me scritte.