Nadeem Aslam, Note a margine di una sconfitta: un gran bel romanzo che parla di guerra e di vita.

Creato il 08 aprile 2014 da Consolata @consolanza
La quarta di copertina di questo romanzo non la dice proprio giusta, e forse fa bene perché con tutta probabilità se fosse stato sincera non l'avrei comprato. E avrei fatto malissimo, perché è un romanzo davvero speciale, di quelli che lasciano il segno, fanno pensare e avvincono durante la lettura senza afferrare le viscere del lettore o tirargli calci nella pancia. Tutto il contrario, per dire, dell'orrido (e di bassissima lega) Il cacciatore di aquiloni. Anche qui si parla di Afghanistan, di guerra e di talebani, ma a tutt'altro livello, e l'autore, non abbracciando il punto di vista dell'Occidente (rappresentato nella violenta e spietata forza delle armi e dei dollari americani), conserva un equilibrio ammirevole narrando dall'interno dell'Islam e riuscendo così, senza dare giudizi, a rappresentare gli squilibri di una società condannata a nutrire in seno la pianta velenosa dell'integralismo e del terrorismo. Siamo a Heer, città immaginaria in Pakistan, poco dopo l'11 settembre 2001, e in Afghanistan gli americani hanno scatenato l'operazione Enduring Freedom. L'anziano Rohan, ex proprietario di una scuola ora trasformata in luogo di formazione per terroristi, ha due figli naturali, Jeo e Yasmine, due adottivi, Mikal e Basie, e un grande cruccio perché l'amatissima moglie Sofia è morta da apostata malgrado tutti i suoi sforzi per ricondurla alla fede. Il ventenne Jeo, studente di medicina, malgrado sia sposato con la diciannovenne Nadeen, parte per l'Afghanistan per dare aiuto alla popolazione locale, e Mikal lo segue. Mikal e Nadeen si sono amati prima del matrimonio di lei, e si amano ancora, ma la vita ha disposto diversamente per loro. Da questo nodo di rapporti personali e spaventosi avvenimenti storici nasce la vicenda che vede protagonista Mikal, venduto a un signore della guerra appena messo piede in Afghanistan, poi prigioniero degli americani, da tutti torturato e quasi ucciso, poi in fuga da tutti, sempre alla ricerca di Jeo e con il desiderio di Nadeen nel cuore. La trama (di cui taccio perché l'ansia di vedere che cosa succederà nella pagina successiva è uno dei motivi di fascino di questo romanzo) è complessa, insieme molto costruita e insensata, proprio come la guerra che le fa da sfondo. I numerosi personaggi (oltre ai già citati, Tara la madre vedova di Nadeen, David il soldato americano, il fachiro dalle catene, padre Mede, e molti altri) sono tutti necessari e delineati con acuta e felice sommarietà, come gli schizzi a matita dei diari di viaggio degli antichi esploratori. E viaggiano molto, corrono come animali inseguiti avanti e indietro tra Pakistan, Waziristan e Afghanistan, tra città e deserto, tra colline e praterie di fiori gialli, tra moschee che sorgono in mezzo al nulla e scuole affollate di bambini e ragazzi. Ci sono tutti i regni della natura: il bellissimo giardino di Rohan con i suoi alberi nominati con i loro nomi come figli, curati con amore, conosciuti e osservati in tutte le loro trasformazioni; le colline e le montagne di cui l'autore nomina le formazioni geologiche con precisa attenzione perché anche quella è storia, meno cruenta e distruttiva di quella umana; gli animali riassunti nel cucciolo di leopardo delle nevi, affidato da una donna a Mikal per confortarlo nelle sue dolorose vicende, che ognuno dei molti in cui si imbatte vuole tenere per sé, per godere della morbidezza della sua pelliccia e del calore del suo peso in grembo; e gli uomini e le donne, naturalmente, non certo i migliori né i più necessari. E alla fine la sconfitta è di tutti, perché anche gli innocenti, anche i giusti fanno errori dalle conseguenze spaventose. Sono sconfitti i talebani feroci e ottusi, gli americani feroci e prepotenti, i signori della guerra feroci e avidi, ma anche i poveri e i semplici, i credenti sinceri, quelli che cercano di comportarsi con giustizia e compassione, perché la guerra è una sconfitta in sé comunque si concluda. E tra i molti legami che si stringono tra gli uomini, anche se l'amore ha un grande peso, il più importante appare quello tra fratelli, e sorelle: fratelli di sangue e adottivi, fratelli acquisiti, fratelli perché si combatte dalla stessa parte, e alla fine fratelli perché tutti condividiamo la stessa natura umana. Questo libro non è viscerale ma neanche freddo, è desolatamente oggettivo, è difficile perché non è consolatorio né semplificatorio. Questo risultato è ottenuto attraverso un linguaggio poetico che crea distacco anche nelle scene più crudeli. Non bisogna dimenticare che Nadeem Aslam nasce come poeta, ed è figlio di un famoso poeta pakistano, citato anche nelle pagine del romanzo. E quanto più bello e significativo di quello italiano è il titolo originale, The blind man's garden, con allusione alla cecità cui Rohan è condannato e insieme metafora della vita umana. Non fatevi spaventare dal fatto che si parli di guerra. Non è un romanzo di guerra, è un bel romanzo sull'uomo e la fragilità delle passioni umane. Fa vedere dall'interno che cosa è stata la guerra in Afghanistan che ormai abbiamo dimenticato tutti, il caos, l'ingiustizia e le spaccature insanabili che ha provocato. Ci dice che l'istinto di salvarsi dell'uomo è insopprimibile, e che anche il confine tra morti e vivi è labile. Alla fine, la morte vince sempre ma la continuità della vita è altrettanto forte e inestinguibile.
L'autore, nato nel 1966 in Pakista, è emigrato in Inghilterra all'età di quattordici anni. Attualmente vive tra Londra e Kabul. Di lui consiglio vivamente il bellissimo Mappe per amanti perduti. Presto leggerò anche La veglia inutile. Bella traduzione di Delfina Vezzoli.                

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