Giovedì 9 aprile 2015 – ore 21
Casa della Poesia di Milano
Largo Marinai d’Italia 1
NADIA CAMPANA (1954 – 1985)
Verso la mente e Visione postuma (ed. Raffaelli, 2014)
tutta l’opera in versi e in prosa di Nadia Campana
a cura di Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci
Intervengono
Sebastiano Aglieco, Marco Focchi, Angelo Lumelli, Giancarlo Majorino, Roberto Mussapi, Giancarlo Pontiggia, Maria Pia Quintavalla
Letture Viviana Nicodemo
Saranno presenti i curatori del libro
e l’editore Walter Raffaelli
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Nadia Campana mi scrisse una lettera, all’inizio del 1978, in cui diceva di leggere regolarmente la rivista che allora dirigevo, di sentirsi vicina a molti suoi temi e infine, quasi come una nota a margine, di avere scritto anche lei delle poesie. Ma – aggiungeva – non era ancora pronta per una pubblicazione. Apprezzai questa umiltà e questa discrezione, che si mantennero intatte negli anni e che ritrovai nei numerosi incontri avvenuti in seguito, quando lei si trasferì a Milano. Era una donna che lavorava moltissimo la sua pagina, curiosa di sentire pareri e critiche, mai sulla difensiva, sempre in ascolto e sempre pronta a rimettersi in questione. Da qui il gran numero di varianti e riscritture, versi che passano da un testo all’altro, titoli che appaiono e scompaiono, un movimento febbrile che era tipico della vita di Nadia Campana, segno d’aria amante della corsa, del gesto atletico e del vento, instabile e mercuriale, mossa da un’insoddisfazione invincibile, ma anche da un’adesione totale ai giorni felici. E la poesia di Nadia Campana conosce anch’essa contrasti violenti. Anzi è in quanto tale una poesia del contrasto. Alla luce della pergola chiarissima e al bianco accecante di tanti versi si oppone un nero marcato e vorace che ci inghiotte come sacramenti nella notte.
(Milo De Angelis: dalla presentazione al volume delle poesie)
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Poesia e secondo novecento di AA.VV. Vol. I a cura di Gianmario Lucini cfr 2014
NADIA CAMPANA
Verso la mente si apre con il riferimento concretissimo a un luogo, New York: «assomigliava al mio cuore alternativamente separato /e unito come le labbra tra cui si mischia l’immagine / del vuoto, mia letizia, mia rosa d’inverno, destato / anno che verrà – », p. 9.
È un incipit che riporto a segnalare, già ad apertura, il clima di uno spaesamento, (cuore alternativamente separato) e di uno stacco lirico propulsore di natura panica, (mia letizia, mia rosa d’inverno): due elementi ricorrenti in queste poesie con la predisposizione ad un abito mentale indossato nel contesto di un lirismo freddo, lucido, a volte distaccato.
Queste poesie sono attraversate dal tema del tempo, nel corpo e nella parola (il tempo è il mio agonizzare). Parrebbe proprio il corpo – spesso vissuto alternativamente nel rapporto con l'(altro) – il luogo in cui il teatro la voce mette in scena le sue torture e i suoi tentativi di canto. «Il compagno Wladimir strappandoci dall’insonnia e dalle lenzuola riporta la “sostanza d’amore” entro una più illuminante traiettoria. Amor sublime, già non più occidentale, ma signorile, feudale».
Sono parole che ben dicono del totalitarismo dell’esperienza, compresa quella amorosa; di quella febbrile assolutezza che ha attraversato la poesia degli anni ’80 entro cui certamente è da iscriversi, per esiti e per debiti, la poesia di Nadia Campana: amore assoluto, esigente, non senza attinenza con un istinto alla dissoluzione e al declinarsi in un canto frammentato ma forsennato. In effetti la maggior parte di queste poesie vive di un lirismo sbozzato, lasciato nell’insieme di un’aritmia percepibile nell’alternarsi di sequenze lunghe o brevi, potenti ma frante. E’ un modo di procedere, questo, retoricamente assimilabile al climax poetico di quegli anni che operava per somiglianze, per assimilazione delle differenze e delle lontananze. La parola è provocata da un nume, forse, piuttosto che da un volere; da un essere pensata, piuttosto che da un pensare: «mi pensa la rosa che è chiusa / mi pensa la paglia inumidita di più / stretta mi attende tranquilla la tana / che scava rintocchi intorno / alla bocca del pozzo premendo le sponde / nel fosso chissà cosa ritrovo», p.18; tema questo di una koiné stilistica, ancora tutta da indagare.
Un esempio, del resto assai noto, è la presenza in un testo della Campana di un verso rintracciabile anche nell’opera di Milo de Angelis, “umiltà di una porta”, che in Nadia Campana sembra svilupparsi nella variante di una maggiore mobilità: “donna-porta uomo-porta”, p. 26.
In generale è riscontrabile, nella poesia di Nadia Campana, un tratto comune di ascendenza sicuramente neoermetica: descrivere, per lallazioni o allucinazioni, i movimenti ascensionali della psiche verso il corpo della parola, ma sono rintracciabili anche le suggestioni di alcune esperienze di poesia al femminile, per esempio quelle di Amelia Rosselli e di Sylvia Plath.
La poesia della Campana, quindi, si discosta da una assoluta passività, da un irrompere sovrano e inarrestabile della voce. Lo testimoniano, infatti, la quantità di esortativi presenti in questi testi che attestano un atteggiamento non passivo, una dichiarazione di presenza nella confusione del mondo e di se stessi. Non può che esserci l’altro, dunque, un tu, in questo andare verso. Da una parte il soggetto sembra subire l’azione, dall’altra si pone come forza attiva, capace di op/porsi all’altro: al mondo; ma anche a un tu, individuato spesso in una presenza maschile, scolpita a tutto tondo: «mi avvicino alle dita di fresco / che picchiettano il volto rasato / senza toccarti vuoi essere adorato», p. 21. Il maschio è spesso raffigurato come corpo che accoglie, capace di frangere con il suo “dispotismo” o “totalitarismo”, ma anche con la sua assoluta schiettezza opposta al muliebre femmineo.
La voce della poesia di Nadia Campana, quindi, è voce che vuole scegliere, niente affatto rarefatta, sommessa o dimessa; campitura alta, piuttosto, come nell’opera della Dickinson, di cui possiamo trovare un’eco in questi versi: «non voglio impazzire per la porpora d’amore / ma bruciare col vento in cielo / e impazzire come vento in cielo», p. 54.
Sarebbe un errore considerare l’opera di Nadia Campana – del resto sentita conclusa già in vita, a giudicare dalla testimonianza di Milo De Angelis e Giovanni Turci nella nota esplicativa al libro – come una “preparazione” o la “premonizione” di un gesto conclusivo, quello sì, almeno, conchiuso e perfetto. Molti passaggi della poesia di Nadia Campana testimoniano, piuttosto, senza volersi addentrare nell’intimità di una psiche, la volontà di un assoluto splendore, almeno nella parola se non nella vita: «se l’incertezza non mi guarisce / trovo un’eco più potente / posso farlo, è la fine», p. 41; «Notte di lupi / sprangare l’angelo del vento / qui è la piega / dove non sarà nuovo morire», p. 23. «Dov’è il suicidio in questi versi? Dove mostrando si cela il gesto successivo, la scelta che avrebbe spinto Nadia a togliersi la vita? E’ possibile cogliere – e fino a che punto – nel “corpo di un testo” il “corpo vivente” che l’ha espresso o dal quale, come una pera matura, si è staccato?». (Un commento a una poesia di Nadia Campana presente in rete: Comunità Provvisoria (http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/2010/02/24/su-una-poesia-di-nadia-campana/)
Sebastiano Aglieco
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ALCUNI TESTI TRATTI DA “VERSO LA MENTE“
Si siede apre la sua pelle svela il suo cuore si cosparge di
profumo e riempie la stanza. Così imbevuta di psiche
femminile non aspetta niente nessuno lentamente il
sonno vivo isterico e tenero preciso e leale si impossessa di
lei sottile e tenace. Immaginare è il suo lusso è
uno strumento ora una cassa di risonanza in cui tutti de-
stano i loro echi e trovano i loro accordi. É tenuta assai
per matta perché si chiude troppo in casa parla male di se
stessa ma non devi crederle. questi saluti quell’unico sor-
riso dà il benvenuto va e viene dal panico teme spesso di
precipitare nelle insidie del coraggio tirata ai quattro an-
goli pronta un cavallo senza briglie soddisfatto ai quattro
venti una vela dei minimi soffi di vento. Appena si sveglia
ride, vede le gemme rumorose sostituisce la forza ai con-
tagi tra il lago e il nulla cede passivamente nel silenzio fe-
dele marina imposizione gioca ritrova improvvisamente il
meccanico l’albergo che fabbrica giocondamente l’amore
chissà quale mondo puro nascerà fuori.
***
Noi, la lunga pianura immaginaria
ci inghiotte come sacramenti nella notte
Sei stato una quantità esatta
nella pioggia che afferra i visi
Ma adesso in ogni angolo della stanza
aspetteremo fuori dall’esplosione
un legno che io, qui,
ho costruito (lasciami fare)
prodigi scelti dal caso, pioppeti da percorrere!
Il tenero è nel mezzo e nell’interno
umiltà di una porta
ascoltando treni, a un passo, come
una febbre nel ricordo esattamente
Guarda il campo
è così calmo smisurato, stamattina.
***
Guardiamo dalla cima del monte
il filo di calma che è nato
del mio petto tu conti ogni grano
e ogni cuore si prende di colpo
il suo tempo: un amore
è tornato e si è accorto
il suo disco ci copre.
Adesso tu devi guardarmi
per quella collana di sì
nella mia pelle che apre
la piana la strada
e i fondi della notte
i centesimi della sete.
***
Il buio come bene
Tutte dolcezze sono alle dita
di rosa l’abito tinge
lungo l’azzurro pieno, come ti chiamavo
a cancellarmi, quaggiú, ti prego.
Per te, io ti, io te sono
che mi contiene nel tremante ricorso
del tuo silenzio vienimi incontro
orizzonte e allarga esso.
Come rami contro il cielo entrai in lui
una specie eletta dal suo cuore
come mondi sognati da miriadi di sogni
sradicati al centro quasi affondando
diciamo.
***
come un folle mago mi estraggo
dal petto la sete
bianco, giallo, stracci di ogni colore
spira il vento che assomiglia a pietra
sporge la gamba
accenna un passo di danza
s’incrina il bacino
si perde l’equilibrio
sul volto scende la saliva
***
perché cresca la luce
perché cresca il buio
perché al chiuso – questo –
crollano umani
rivestono di pori le gocce
d’oscuro chiama la schiuma
accesa tondo rovescia
oscuro più oscuro
annaspandoti, e tu mia mente
(poesie tratte da Verso la mente)