L’articolo 9-2-2015 di Cosimo Perrotta
Come l’Italia si ritrovò sotto una montagna di rendite che spense lo sviluppo
C. Napoleoni, Lotta alle rendite. Teoria e proposte di politica economica, a c. di M. Messori
Marcello Messori, noto economista e attuale presidente di Trenitalia, ha curato – in bella edizione – una vasta antologia di scritti del suo rinomato maestro, Claudio Napoleoni, con il titolo Lotta alle rendite, e l’ha introdotta con un rigoroso saggio.[1] La prima parte della raccolta è dedicata agli scritti teorici, tra cui quelli sul valore; la seconda, alla natura del capitalismo; la terza, all’economia italiana.
C’è una continuità fra queste tre parti. Ma essa dà al discorso un carattere deduttivo e tortuoso, che rende faticosa la riflessione storica ed empirica, anziché agevolarla. Messori – che pure segue e discute le astrazioni di Napoleoni – scrive che l’autore infine ammette i fallimenti della teoria, sia marxista che neoclassica. Ma, aggiunge Messori, proprio la mancanza di teorie gli permette un’analisi lucida della progressiva degenerazione dello sviluppo italiano (Introd., par. 9).
Negli anni Sessanta Napoleoni, criticando i consumi “improduttivi”, solleva il problema della lotta alle rendite. Egli parte dallo squilibrio che si era creato tra il forte aumento di produttività dell’industria e la creazione di parassitismi nei servizi (soprattutto nel pubblico impiego) dove a una crescita dei salari non corrispondeva una parallela crescita della produttività. Questo squilibrio scaricava sul settore industriale pesi impropri, che ne rallentavano lo sviluppo generando inflazione, aumento del debito pubblico e fuga dei capitali.
Napoleoni quindi aveva colto sul nascere l’anomalia italiana, quando ancora sembrava che lo sviluppo avesse prospettive illimitate. Negli anni Settanta le sue analisi constatano l’aggravarsi dello squilibrio, dovuto all’intreccio tra aumento delle rendite (rendite fondiarie e finanziarie, remunerazioni varie di lavoro improduttivo) e aumento dei salari industriali al di sopra dell’aumento di produttività. I profitti industriali, dice l’autore, caricati dei pesi impropri e crescenti della rendita, non sono in grado di sopportare aumenti salariali di quel genere. Se non si limitano le rendite, afferma, l’accumulazione si riduce. Per questo egli propugna un patto sociale tra produttori, cioè fra borghesia produttiva e salariati dell’industria; e assegna alle imprese pubbliche il compito di ridimensionare le attività improduttive, attraverso il rigore della gestione e il ripristino del loro ruolo di servizio all’industria privata.
Questo patto tra agenti produttivi non avverrà mai. Alla fine degli anni Settanta Napoleoni spera ancora nella capacità della programmazione di liberare il mercato dai vincoli delle rendite e di ricondurlo al suo ruolo fisiologico di pagare i servizi in base ai costi. “In caso contrario – egli afferma – la programmazione scadrebbe inevitabilmente in assistenza” (p. 458). E’ proprio quello che è successo. Nei due decenni successivi le rendite, invece di restringersi, si sono estese all’interno dei settori produttivi – dove già si erano formate – conquistando una parte crescente delle attività delle imprese e del lavoro dipendente, creando debito pubblico e inflazione, che a loro volta hanno alimentato altre rendite.
Negli anni Ottanta i governi, piuttosto che combattere la battaglia – ormai largamente impopolare – contro le rendite, hanno preferito usare l’aumento delle rendite per dilatare la domanda e i consumi, i quali tendevano a restringersi a causa dell’aumento del debito e del ridursi della produttività. Quell’aumento della domanda era drogato. Nell’Introduzione Messori descrive con grande efficacia questo processo degenerativo che continua e si accentua anche negli anni Novanta (pp. 34-40): la spesa e l’aumento del deficit crebbero senza controllo; si provocò un rialzo nei tassi sui titoli del debito pubblico, che permise “un’abnorme rendita finanziaria”. Le partecipazioni statali diventarono la ciambella di salvataggio delle grandi imprese private, disabituate alla concorrenza internazionale, e favorirono le collusioni illecite tra politica ed economia.
Alcune grandi imprese furono protette e foraggiate, e ciò facilitò gli intrecci societari opachi. Crebbero il lavoro non protetto, l’elusione e l’evasione fiscale. I servizi più arretrati, pubblici e privati, vennero protetti, e i loro addetti accrebbero le loro remunerazioni senza alcun controllo di produttività. Infine si crea una serie di processi di “privatizzazione senza liberalizzazione”, che trasforma “i vecchi monopoli pubblici in quasi monopoli privati” (p. 37-38). In conclusione “le rendite erano diventate così pervasive nell’economia italiana da creare costi per le imprese produttive che erano in largo eccesso rispetto al benefico sostegno della domanda aggregata nel breve termine” (p. 35).
La conclusione di Messori è drastica ma ineccepibile: il costo sociale delle rendite e il conseguente “coacervo di legami consociativi” non sono più compatibili con l’appartenenza dell’Italia all’area euro “e allo stesso novero dei Paesi economicamente avanzati”.
(continua)
[1] C. Napoleoni, Lotta alle rendite. Teoria e proposte di politica economica, a c. di M. Messori, Lanciano: Rocco Carabba.