L’articolo 16-2-2015 di Cosimo Perrotta
(la prima è apparsa il 9 febbr.)
Ogni categoria ha le sue rendite da difendere. Chi farà valere l’interesse generale?
Marcello Messori
Sulla politica contro le rendite, le idee di Napoleoni cambiano nel corso del tempo. Negli anni Sessanta (quelli della Rivista Trimestrale) egli considera rendite tutti i guadagni al di sopra di quanto è necessario per svolgere il proprio ruolo produttivo. Perciò la crescita dei salari appare la rendita più vistosa, e il contenimento degli aumenti salariali sembra a lui e a Franco Rodano come inevitabile per non frenare la crescita (par. 12.2). Non fa molta differenza che essi volessero una “tregua salariale”, regolata dalla programmazione, anziché la “politica dei redditi” (cioè il contenimento degli aumenti salariali entro i limiti dell’aumento di produttività) voluta da Carli e La Malfa.
Napoleoni comprese che la crisi degli anni Sessanta – la cosiddetta congiuntura – non era dovuta a carenza di domanda, e quindi non si poteva superare con politiche keynesiane (pp. 444-45). Ma andò all’estremo opposto: per lui il problema centrale era come prosciugare l’eccesso di consumi “opulenti” e “individualistici”, che rispondono a bisogni superflui. Questo tipo di consumi, che si estende al consumo popolare, va sostituito con i consumi pubblici, che sono più utili e più sobri (cap. 9). In questa analisi c’è una contraddizione insanabile fra le politiche per la crescita (cioè per l’aumento di produzione e consumi) e l’idea che l’aumento dei consumi costituisca di per sé un impiego improduttivo della ricchezza. Nel 1973 l’autore proponeva, in questa ottica, le “riforme-grano”,[1] che erano in pratica una liberalizzazione del mercato al fine di abbassare il costo del lavoro (par. 15.1).
Questa visione ideologica e moralistica confonde l’analisi congiunturale con quella dello sviluppo di lungo periodo (proprio l’accusa che Napoleoni e Rodano facevano alla politica dei redditi). Poco dopo però (1976-77) Napoleoni sembra liberarsi di queste idee. Egli individua l’origine delle rendite nelle estese sacche di improduttività dei servizi e in particolare nella pubblica amministrazione (par. 15.2 e 15.3).
Nell’Introduzione Messori sviluppa quest’ultimo discorso. Egli rifiuta l’idea di programmazione (dopo tanti fallimenti), ma anche la formula salvifica della liberalizzazione come soluzione di tutti i mali. Il ruolo della stato, egli dice, non va ristretto. Piuttosto bisogna riorganizzare la pubblica amministrazione e semplificare le norme; potenziare l’istruzione, la ricerca, i servizi alle imprese; tassare di più le rendite e di meno le attività produttive. Soprattutto, bisogna eliminare le “posizioni di rendita che sono la (diretta o indiretta) conseguenza di una distorta allocazione della spesa pubblica”. Da qui si deve prelevare il denaro per i provvedimenti suddetti (p. 41). Ecco finalmente il bandolo della matassa (sebbene sia solo enunciato).
Sulla scia di Napoleoni e Messori, cerchiamo di completare l’analisi sulle origini di questa situazione. Se oggi l’economia italiana è soffocata dalle rendite (la crescita è bloccata da 15 anni), ciò si deve ad un processo degenerativo che inizia già con lo sviluppo post-bellico. L’abitudine delle imprese all’assistenza, le sacche di parassitismo pubblico, la visione dello stato come strumento per ottenere vantaggi privati, l’improduttività della pubblica amministrazione, l’arroganza delle istituzioni, sono tutti “disvalori” pre-moderni che l’Italia degli anni Cinquanta eredita dalla sua storia e che perpetua – sotto l’apparenza democratica – durante lo sviluppo.
Così, eccetto la rendita agraria, gli antichi privilegi non sono scomparsi, e ne sono nati di nuovi. Basti pensare al Sud, dove al vecchio dominio della rendita agraria si sostituisce il dominio di un nuovo ceto: la borghesia dei politici, amministratori, tecnici-clienti e imprese colluse che gestiscono il fiume di denaro pubblico che si riversa in quelle regioni per mille rivoli.
Questi privilegi si sono consolidati in rendite. I governi, le forze politiche, i sindacati, i corpi professionali, la pubblica amministrazione, non avendo la forza di abbatterle (o la convenienza), hanno esteso le rendite improduttive a una parte cospicua dei ceti medi e popolari, naturalmente in gradi diversi e in forme svariate.
Sottolineare l’origine di questo degrado è importante per capire il compito immane che ci sta di fronte. C’è da combattere una cultura atavica e interessi costituiti molto estesi. E c’è da superare il tipico circolo vizioso delle degenerazioni economiche: se non c’è sviluppo, la disoccupazione, i bassi redditi e la domanda debole spingono la gente a rifugiarsi nelle rendite improduttive di vario tipo. Ma ciò rafforza la destinazione improduttiva del capitale e blocca lo sviluppo. Il risultato è che uno smantellamento troppo rapido delle rendite crea resistenze (e anche sofferenze) troppo forti. D’altra parte una lotta troppo graduale e fatta in sordina fa perdere la motivazione ideale del cambiamento, e permette alle rendite di riassestarsi su altri piani. Ci vuole molta intelligenza e molta tenacia.
[1] Il riferimento è alla liberalizzazione dell’importazione di grano nell’Inghilterra del primo Ottocento, per abbassare il costo del lavoro.