Post di Fabrizio Lorusso e Babe (Radio Città del Capo – Programma THIS IS NOT AN EXIT) – CLICCA QUI Link per ascoltare il PODCAST del programma – Soundtrack by Eazy E et al. – In collaborazione con This Is Not An Exit Blog
[Intro di Babe] Se ne parla poco, se ne sente parlare tantissimo. E’ anche uscito un film autocelebrativo” Straight outta Compton” che racconta l’epopea dei NWA, Negri Con l’Attitudine, l’Attitudine con l’A maiuscola, l’unica con permesso di soggiorno nell’america Reaganiana, ovverosia la propensione a far soldi e tirarsi fuori dalla Compton del Crack degli anni ’80. Il Crack era una sintesi della cocaina ottenuta con un semplice processo chimico che ne moltiplicava e amplificava gli effetti…e i guadagni per chi la vendeva. Non era più la sostanza d’elezione per le elite bianche in cerca di un “coadiuvante” prestazionale ma uno stupefacente buono per i ghetti neri delle grandi città americane con la sua tendenza ad alimentare l’alienazione sociale e le forme di psicosi.
Sembra che Eazy E abbia fondato la Ruthless records nel 1988 con i proventi dello spaccio, duecentocinquantamila dollari per un ragazzo di 22 anni erano una bella somma che valeva la pena reinvestire in un’attività più tranquilla dato che la concorrenza si faceva sentire concretamente, l’uccisione del cugino e socio d’affari erano stati un’efficace avvertimento. Dopo due anni Eazy E era già pronto a scucire un milione di dollari per mettere sotto contratto un giovanissimo DJ Quik, astro nascente dell’Hip hop di Compton.Anche DJ Quik era un tipico personaggio della Los Angeles nera. Era un giovanissimo affiliato alla gang Piru Blooded, l’avere un ruolo era condizione necessaria per potersi muovere per Compton con senza finire inevitabilmente nei panni della vittima. Era il DJ del clan, una sorta di giullare di strada i cui show spesso finivano in alterchi derivati dalle ingiurie declamate dall’MC di turno. Quick, oltre ad essere rapido nel rappare era un piccolo prodigio musicale, in grado di suonare vari strumenti e presto, diciassettenne, si fece un nome vendendo i suoi mixtape per il quartiere dove viveva ormai senza fissa dimora. A vent’anni si trovò con un disco da un milione di copie, un prodotto del substrato culturale di uno dei maggiori mercati di spaccio d’America, Los Angeles.
[Estratto dal libro NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga (Odoya, 2015) diFabrizio Lorusso, autore di Santa Muerte Patrona dell’Umanità (Stampa Alternativa, 2013) e (con Romina Vinci) de La fame di Haiti (End, 2015). Contatto @FabrizioLorusso – BlogLamericaLatina.Net]
Il più grande mercato del mondo, gli Stati Uniti, spartisce oltre 3000 chilometri di frontiera col Messico, che è un Paese di transito per le droghe sintetiche, come metanfetamine e allucinogeni, e per la cocaina colombiana, peruviana e boliviana. Ma è anche un territorio di produzione di marijuana e papavero da oppio, da cui si ricavano la morfina e l’eroina. Questi “vantaggi competitivi”, la connivenza delle autorità a vari livelli e la storica debolezza istituzionale del Messico hanno da sempre costituito un terreno fertile per la proliferazione delle imprese criminali, foraggiate già negli anni Trenta e Quaranta del Novecento dalla domanda militare statunitense e dalla relativa tolleranza sia dei governi messicani, statali-regionali e nazionali, sia degli Usa, bisognosi di sostanze proibite in patria. In seguito le pressioni nordamericane contro la produzione e il commercio di stupefacenti si fecero più serie e negli anni Settanta e Ottanta, in particolare durante le amministrazioni di Ronald “Rambo” Reagan, la war on drugs s’affermò come retorica e politica di stato della potenza del Nord nei confronti dell’America Latina, con la Colombia e i paesi andini in testa. Il Messico non era escluso dall’interessamento americano, e la DEA è sempre stata presente nel Paese. E così anche la CIA, che, per combattere il regime rivoluzionario dei sandinisti in Nicaragua, non esitò a stipulare accordi col boss Miguel Ángel Félix Gallardo, El Padrino, e la Federación, il progenitore del cartello di Sinaloa.
Grazie a loro poteva ricavare dalla vendita della cocaina e della marijuana i fondi necessari per le armi delle Contras, le bande paramilitari e antinsurrezionali che operavano contro il regime nicaraguense partendo dal territorio honduregno. Le ricerche sul coinvolgimento della CIA e della DFS messicana (Dirección Federal de Seguridad, poi trasformata in AFI, Agencia Federal de Investigaciones, e dopo in PM, Policia Ministerial) coi narcos sono state riconfermate dalle rivelazioni, riportate dal settimanaleProceso alla fine del 2013, di ex agenti della dea che lavoravano in Messico negli anni Ottanta. Traffico di droga e armi, campi di allenamento in territorio messicano gestiti dal cartello, voli USA-Centroamerica con scali in terra azteca: questi alcuni punti chiavi dei patti.
Emerge un quadro fosco e inquietante, rappresentato perfettamente dallo scrittore Don Winslow nel suo romanzo storico sui narcos messicani Il potere del cane, la forza dell’oppressione. Al noto scandalo Iran-Contras (o Iran-Gate) nell’era Reagan si aggiunge quindi quello narcos-Contras. Lo stesso governo americano, attraverso la CIA, si ergeva negli anni Ottanta a promotore occulto della domanda interna. Lo scandalo Narcos-Contras, ben raccontato nella pellicola Kill The Messenger(“Uccidete il messaggero”), diretta da Michael Cuesta nel 2014 e basata sull’omonimo romanzo di Nick Shou, lo dimostra, e rivela altresì gli aspetti più inquietanti e ipocriti della narco war.
La CIA vendeva cocaina e derivati in casa propria per finanziare operazioni segrete, vietate dal Parlamento USA, e forniva armamenti ai mercenari Contras che dall’Honduras conducevano una guerra contro il governo rivoluzionario sandinista di Managua. Il “pericolo rosso” in Centro America era dunque più temibile del “pericolo bianco”, peggiore dei fiumi di coca e di ciottoli di crack che inondavano e soffocavano le periferie delle metropoli statunitensi.
Per la CIA e certi settori del potere esecutivo i ghetti erano pieni di scorie da eliminare. Feccia comunista in Nicaragua, scarti del sistema negli slums di Los Angeles o di Harlem, entrambi sacrificabili per “fini superiori”. In Kill The Messenger è narrata la storia vera del giornalista Gary Webb alla metà degli anni Novanta. Il sottotitolo del libro di Shou parla chiaro: “How The cia Crack-Cocaine Controversy Destroyed Journalist Gary Weeb” (“Come il polemico caso crack-cocaina della cia ha distrutto il giornalista Gary Webb”). Il reporter del San José Mercury News indaga nel marciume del caso Narcos-Contras, è perseguitato dai servizi segreti, screditato dai mass media, mollato dai propri editori e infine indotto al suicidio nel 2004. La libertà di stampa e di opinione è, negli states come in Messico, un’altra vittima immolata sull’altare della narcoguerra.