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Narrativa, arte e verità

Creato il 06 novembre 2014 da Spaceoddity
Intendiamo qui l'arte come l'uso tecnicamente consapevole di alcuni strumenti e di abilità maturate nel tempo per la produzione di oggetti, ai quali in una determinata epoca (coeva o successiva alla loro "nascita") si attribuisce un valore aggiunto (e solo in certi casi sostitutivo) rispetto a quello d'uso. È una definizione come altre, dunque sbagliata o almeno parziale, senz'altro poco fulminante, ma utile. Ora: c'è un'arte alla quale spetti il dovere (o il diritto) di essere portavoce della realtà?
Narrativa, arte e veritàGiorni fa, si discuteva di generi narrativi su Radio 3, in diretta con interlocutori di Lucca Comics, e ci si chiedeva se oggi sia il romanzo il genere preposto a un simile scopo. Il lettore navigato di questo blog sa benissimo che non ci si può aspettare una risposta a una simile domanda da me oggi, Però, se restituisco la domanda al mittente e la amplifico con il mio blog è perché reputo questo approccio, non solo corretto, ma addirittura essenziale.
Il punto, qui, non è infatti stabilire i ruoli imposti a ogni tipo di "scrittura", bensì il modo in cui il lettore percepisce un genere che sa distinguere benissimo dagli altri, almeno per sommi capi. Da adolescente, consumavo un gran numero di libri fantasy ed ero cosciente della settorialità delle mie letture, giacché ne potevo parlare solo con poche persone; e quei colloqui, ça va sans dire, avevano un po' il sapore della confabulazione iniziatica, del giardino segreto nel palazzo del re, in una congiura contro il realismo.
Quando poi ci si rivolgeva alla fantascienza, ero io stesso in difficoltà: non avevo proprio interlocutori e faticavo un po' ad addentrarmici, perché comunque non ho mai vissuto la lettura come un momento di reale solitudine. Forse, se invece avessi questa prospettiva, oggi non sarei insegnante. In più, il "chiasso" mi ha sempre infastidito e le luci stroboscopiche di una battaglia infinita e dall'esito più o meno sicuro mi annoiano. Però fui rapito ugualmente dagli altri mondi, così affascinanti rispetto ai monotoni e psichedelici videogiochi di astronavi.
Stentavo a credere alla gerarchia dei generi e non capivo perché la fantascienza dovesse stare diversi gradini sotto Erodoto, per quel che potevo capire dell'una e dell'altro. Soggiacevo ai canoni con la rassegnazione dell'inesperto per definizione: appassionato, ma condannato a un perenne subordine, a un senso di inferiorità rispetto a quanto propagandato dalla critica (in gran parte di ascendenza marxista). Non ho mai creduto, per mia fortuna, che la letteratura di Verga fosse più vera di quella di Henry James, però ero un alunno e dovevo "imparare".
Narrativa, arte e veritàIl problema è che a scuola l'uso del canone, piuttosto che focalizzare il genio di singole esperienze, viene usato per discriminare il resto.
Il primo discrimine è il piacere, in nome di un pregiudizio della sofferenza. Non è ammesso che si possa godere (verbo censurato quant'altri mai) la gioia carnale della letteratura, la letteratura è solo dolore, inadeguatezza, stato di subordine di chi la pratica. L'eroismo un accidente, un tema come un altro per ricordare all'uomo - all'autore e al lettore - che lui non è all'altezza della vita, che è meglio che lasci perdere, se vuole fare letteratura vera. O che si dedichi ad attività più produttive. Il resto è un prodotto di massa, per le edicole e i supermercati.
L'autore e il lettore di generi non "realistici" - o meglio, per usare un'espressione di Alberto Savinio - non doloristici sono confinati nello stesso limbo e si toglie loro il crisma di arte, l'aura. Solo che, dall'Ottocento in poi, l'alternativa all'arte è l'industria (Benjamin docet): l'universale in termini di distribuzione planetaria (il qualunquismo insito perfino nella formula "globalizzazione") si scontra con l'universale antropologico definito e ripensato dagli autori insigniti delle più lusinghiere onorificenze.
Eppure questa è una forma di strabismo, che porta a creare equivoci e confini in un'era dal passaporto facile. La letteratura così definita in termini di realismo è anacronistica, in quanto non è più l'unica forma di narrazione: termine, quest'ultimo, di cui si abusa, ma che senz'altro spiega le ambasce della letteratura nel garantirsi l'esclusiva di un rapporto tra arte e mondo: la parola non è l'unica fonte storica e umana, è uno strumento tra gli altri di un racconto multimediale dell'esistenza.
E che sia ormai esistenza (individuale), e non vita, lo dice l'interesse per l'aspetto emotivo, la profondità ricercata proprio là dove prevalgono l'effimero e l'epidermico. Esistenza come esperienza della vita, non come sua completezza: come fragilità, sguardo parziale eppure aperto, multicanale, a tutti gli stimoli sensoriali. Esistenza, forse con troppa faciloneria, come filosofia del vivere, rispetto alla quale il lògos (più o meno universale) non basta perché l'esistenza così intesa scaturisce da energie molteplici e più ristretti.
Narrativa, arte e veritàAbbiamo, dunque, un'arte che si possa fregiare del titolo di "realista"? E uno scrittore, uno scultore, un fotografo che lo sia? L'ambizione di scrivere cose e non parole (secondo una famosissima formula, con Verga, Pirandello e Sciascia) è non solo positiva, ma benemerita. A patto però di non reclamare un'esclusività che non esiste nell'intento. La realtà è patrimonio e dovere di ciascuno, non appannaggio di pochi depositari. C'è che le cose sono diverse e, a seconda di dove si scenda a raccoglierle e a metterle insieme, tracciano storie anche antitetiche l'una rispetto all'altra.
Lo scrivere parole e non cose è invece il frutto dei dettami classicistici che l'arte realistica vorrebbe accantonare: è il fascino dello schema, del modello, della sezione aurea per dar forma, rilievo ed energie alle idee, ai propositi, alle storie. Ma io non scrivo parole, traduco un'idea in discorso; non fotografo immagini, piuttosto le creo a partire da un'intuizione, selezionando un frammento all'interno di una visuale più ampia. In questo senso, chiunque è un artista nel momento in cui si impadronisce della "realtà" per presentarsi attraverso di essa.
Il "lettore" affronta allora la mia versione della realtà. Di nuovo: parziale, opinabile, sincera fino allo sfarzo autoreferenziale - ma ultracodificato - dell'autismo intellettivo. L'unico alibi per giustificare la mia sincerità è il fatto che tale messaggio deve passare da un canale comunicativo e, perché questo funzioni, non può che essere un artefatto, una specie di lingua seconda per tutti (e quasi lingua madre per pochissimi geni, come Mozart, giusto per non cadere in equivoci).
Quando parliamo di letteratura, di fotografia, di cinema, di musica, ci riferiamo proprio a questa lingua seconda: tutti siamo realisti, perfino i più ciarlieri e cialtroni, e tutti abbiamo bisogno dell'accoglienza del nostro linguaggio da parte dei nostri interlocutori. Accoglienza, non condivisione: sono frequenti i casi di artisti "farneticanti" che comunicano in base al proprio estro, seducono, rapiscono, incantano nella loro radicale differenza, si offrono come materia del loro discorso, e non sono per questo meno veri.
Narrativa, arte e veritàSe una volta o l'altra rinunciassimo a questa retorica odiosa del vero per soggetto (di manzoniana memoria) come catena a una visione preordinata delle cose, e rispettassimo l'intenzione investigativa che invece pertiene al vero (già - e direi soprattutto - nello stesso Manzoni), potremmo aprirci molto di più al mondo e - per esempio - alle cosiddette sperimentazioni artistiche: stravaganze, sì, nella misura in cui ciascuno di noi lo è. L'utile per iscopo e l'interessante per mezzo sono risvolti dello stesso approccio: il vero per soggetto segna paradossalmentre proprio un discrimine tra ciò che è reale e ciò che ne è la sua resa artistica.
L'arte parla di te, oppure non è arte, è comunicazione tra due o tre soggetti che forse si capiscono. L'arte si intuisce, forse, ma si arriva a capire solo con sforzo e lavoro. Con buona pace dell'opera d'arte che sembra essersi fatta da sé, come voleva Verga. Con buona pace della "naturalezza" dell'arte, insomma, e di certa sua spontanea aderenza al reale. L'arte non è per analfabeti, anzi scongiura l'analfabetismo, per questo dovrebbe essere per tutti. Almeno a scuola, dovremmo riscrivere per intero la storia letteraria, in particolare quella del secondo Ottocento.

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