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Nastase, il ribelle del tennis fantasia

Da Astonvilla
Nastase, il ribelle del tennis fantasia
E’ un incontro casuale. Al bar. Al piano terra del Queen Elizabeth Center, a meno di cento metri da Westminster. L’uomo che beve una birra piccola, chiara, è stato un mito del tennis e si chiama Ilie Nastase. Lui, Vilas, Ashe, Borg, McEnroe, Connors. Erano quei giorni lì. Ha i capelli grigi, lunghi, da dandy di ritorno, e ha messo su un filo di pancia. Gli piace farla vedere. Porta una maglietta da teenager, con un’enorme bocca da cui esce una lingua di pezza. «Io sono così, un pazzo aristocratico».Ha le borse sotto gli occhi, come se non dormisse da due mesi e dimostra tutti i suoi sessantacinque anni. Anche Peter Pan a un certo punto invecchia. Nel 1973 era il numero uno al mondo. Romeno. Il volto vincente del regime di Nicolae Ceausescu. Lui e Nadia Comaneci. «Ho sempre giocato solo per me stesso. Qualunque atleta fa così. Passerebbe sopra alla propria madre per una vittoria. Certo la patria, la famiglia, la bandiera. Cose che si dicono». Djokovic, Nadal, Federer, anche per loro è così? «È così per tutti. Da sempre e per sempre. Non cambierà mai. Non sono cinico. Cerco di essere sincero. Il cuore non mi è mai mancato».Era un artista, ossessionato dall’idea che il pubblico aveva di lui. Aggressivo, clownesco, scorretto, assolutamente adorabile. Aveva tutti i colpi. E non gli mancavano quelli di testa. «Fare arrabbiare gli avversari era parte della strategia». Scendeva in campo e giocava ogni match come se avesse deciso di bruciare gli anni, i mesi e i giorni in un’unica inestinguibile fiamma. Rosso o nero. La vita o la morte. Il suo compagno di doppio, Ion Tiriac, ha giurato di non avere mai visto nessuno con quel talento. «Mi incantavo a guardarlo». Un eroe da romanzo. Selvaggio e sentimentale. Le sue biografie narrano che abbia portato a letto più di duemila donne. Tre le ha sposate per poi divorziare. «Mi hanno sempre accusato di essere uno zingaro. È vero. Sono uno zingaro romeno. E ne sono orgoglioso».È a Londra per i Laureus Awards, c’è da scegliere l’atleta dell’anno (vincerà Djokovic) e lui è uno dei testimonial. Porta in giro se stesso e la sua storia da film. Lo chiudono in una stanza e poi mettono i giornalisti in fila. Entrano uno alla volta come nello studio della mutua del dottor Tersilli di Alberto Sordi. Cinque minuti a testa. Più una visita a una madonna pellegrina - «l’ho toccato» - che un’intervista. Lui dispensa pillole di saggezza e regala frasi da titolo. «Le Olimpiadi sono solo business». «Calcio e tennis a Londra non dovrebbero esserci. Atletica e ginnastica, quello è lo sport puro». «Il doping va liberalizzato, tanto è sempre più avanti della medicina». Il decalogo prestampato dell’antico ribelle. Lo conosce a memoria, dalla crisi economica internazionale al razzismo. Non è mai stato un problema per lui intrattenere il pubblico. Che dice il Buffone di Bucarest, che cosa pensa Nasty Nastase?Adesso, davanti alla birra, quando è da poco passato mezzogiorno, ha solo voglia di rinfrescarsi la gola e di parlare italiano. «Mi manca il vostro Paese. E poi Panatta è mio amico. Lei la sa la storia del gatto nero?». No. Si illumina. «Cominciò tutto a Montecarlo. Eravamo io, Vilas, Tiriac, Adriano e Gaetano Caltagirone». Sembra una gag di Fiorello su Cuba, Sotomayor e Gianni Minà. Solo che è vero. «Ascolti, è bellissimo».È una sera d’estate e i cinque decidono di andare al ristorante. Salgono in macchina. Panatta è con Caltagirone. A un certo punto la loro auto inchioda. «Io scendo e chiedo: beh, che succede amico?». Adriano lo guarda strano: «Un gatto nero». Cioè? «Gli aveva attraversato la strada, capisce? E lui non voleva più andare avanti. Superstizione. Facemmo una deviazione di trenta chilometri per arrivare a cena». Il fatto gli tornò in mente al Roland Garros, quando con Tiriac sfidò Panatta e Bertolucci sul centrale. Diede cento dollari a un ragazzino perché trovasse un gatto nero. Poi lo fece sedere in prima fila. «A un certo punto il gatto corse in campo e si diresse verso Adriano. Lui cominciò a urlarmi contro impazzito: sei un bandito romeno. Il pubblico morì dalle risate. Noi vincemmo facile in tre set: 6-1, 6-1, 6-0. Peccato che da quel giorno la federazione francese mi impedì di tornare sul centrale». Oggi non potrebbe succedere, spiega. Sostiene che i paragoni sono impossibili. «Avevamo racchette di legno e palle sgonfie, ma sapevamo tutto di tutti. Ci frequentavamo. Ed eravamo amici. Sì, amici, lo posso dire. E poi Borg, Borg tirava più forte di chiunque, mazzate da spezzarti le braccia. Ora Djokovic, Nadal e Federer non sanno neppure chi si troveranno di fronte». Sono macchine da soldi, giura. Dei tre il migliore in questo momento gli sembra Djokovic. «Ha forza, colpi, temperamento. Ma nessuno di loro pensa al pubblico». Un peccato mortale.Una ragazza castana e piena di energia lo prende per un braccio. Lui butta giù l’ultimo sorso e risponde a una domanda mai fatta. «Per un po’ ho pensato che la politica nella mia vita potesse prendere il posto del tennis. È andata male. In campo vinci o perdi. In politica invece devi promettere e dire bugie. No, non fa per me». Era la metà degli Anni Novanta. Sperava di diventare sindaco di Bucarest. Lo fecero a pezzi. Rinfacciandogli persino i giorni in cui era partito per Parigi - come in fuga - mentre il regime stava cadendo. «Fesserie. Il mio progetto era semplice: volevo che la città avesse l’acqua. Non avevo promesso altro». Irriso. Sconfitto. «Ma secondo voi, adesso, l’acqua a Bucarest c’è?».La ragazza lo sollecita regalandogli uno dei suoi sorrisi angelici. Lui la segue riluttante. Entra nello stanzino. Sei felice Ilie? Si siede con il respiro appeso al collo e i piedi a penzoloni. E sembra un ragazzino che pesca sul molo dei suoi ricordi. «Sì, adesso sì. Quando ho lasciato il tennis è stata dura, ma o decidi di vivere il presente oppure non dormi più la notte. Mi ci sono voluti anni per ritrovare la pace». Non dice la gioia. Dice la pace.

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