Magazine Attualità

Natale a Nuoro: messa di mezzanotte cantata

Creato il 19 dicembre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Giorgione_014di Massimo Pittau. La mia famiglia abitava in una casa in affitto posta nell’angolo tra la piazza di S. Maria della Neve e via Guerrazzi nel rione di Lollobeddu, quasi sotto il campanile che aveva la campana chiamata (O)Lionzedda, perché veniva suonata per annunziare la estrema unzione (olionzu) che si amministrava a qualche moribondo, rione e campana ricordati da Salvatore Satta nel suo citato romanzo; d’altronde la casa apparteneva proprio ad uno zio dello scrittore, don Predu Satta.

Da piccolo fui mandato a frequentare l’”Asilo Regina Margherita” tenuto dalla Suore Vincenziane. Ricordo un mio primo insuccesso: in una “recita” al pubblico delle famiglie io avevo da pronunziare un monologo e questo andò bene in due recite, ma alla terza, appena salito sul palco, mi rivolsi alla suora dicendole che non me lo ricordavo più. Lei non si scompose, ma mi sostituì subito con un mio compagno più bravo di me, Aldo Vento, il quale, oltre che la sua parte, aveva imparato pure la mia.

I bambini dell’Asilo, proprio come le “Orfanelle” a parte, venivamo ingaggiati, con un compenso all’istituto, per l’accompagnamento nei funerali di persone facoltose. Io ricordo che le suore davano quasi sempre a me l’incarico di tenere lo stendardo dell’Asilo. A tutti i bambini davano un berrettino alla marinara, il quale portava un nastro con la scritta ”Asilo Regina Margherita” ed io ricordo pure che questo berrettino risultava sempre piccolo rispetto alla mia testa.

Dato che in famiglia ero il figlio più piccolo (un fratellino ancora più piccolo era morto quasi subito) ero entrato molto per tempo nelle cure di una mia zia, Grazia. Costei prima abitava in una stanza della nostra stessa casa di Lollobeddu e dopo in una palazzina situata nella via Ferracciu 23 dietro il vecchio Comune. Mia zia era sorella di mia madre, ma esse erano tanto differenti di mentalità e di modi di agire, che non sembravano neppure sorelle.

Mia zia, dunque, per tutta la mia infanzia mi coccolò e mi viziò in maniera spropositata: tutte le sue cure e attenzioni erano soltanto per me, tutti i manicaretti e i dolci erano prevalentemente per me.

Io sono stato per alcuni anni in casa sua, a mangiare e a dormire, ma rientrato in famiglia quando iniziai gli studi elementari, continuai a frequentare la sua casa per andare a giocare e soprattutto a mangiare. Se da lei venivano anche mia sorella Maria e pure nostro nipote Agatino, a loro due insieme dava meno cibo e meno dolciumi di quanto ne dava a me solo.

Mia zia mi caricava di cibo, di frutta, di dolci e perfino di bevande di ogni genere. Ricordo ancora che certi cibi e bevande io li ho mangiati e bevute per la prima volta nella mia vita in casa di mia zia; ad es. le barbabietole, i datteri, la birra, il ferro-china. Giornate cruciali erano quelle delle principali feste, perché mia zia mi riempiva di tutto, all’insegna del suo triplice motto Mánica, mánica, mánica!, «Mangia, mangia, mangia!»: ravioli, pasta al forno, salsiccia, lardo con pane, carciofi crudi o cotti, piselli crudi o cotti, fave crude o cotte anche con la ricotta, ricotta con miele, miele ancora nella cera oppure sciolto, marmellata, castagne arrosto oppure secche ma rese morbide perché bollite con un particolare intingolo, vino di Oliena, erbe di campagne soffritte, spinaci, pomodori, insalata, cavoli di ogni specie (perfino a merenda), noci, nocciole, fichi secchi con la mandorla dentro, papassini, gattò, uva e pere conservate fino a Natale, mele granate, mele cotogne; il tutto chiuso da un bicchierino di ferro-china Bisleri, fattomi bere per “digerire”.

Di certo io correvo il rischio di diventare un ragazzo di grossa corporatura e perfino obeso, se non ci fosse stato a mio vantaggio, oltre che il continuo scorrazzare coi compagni del vicinato, un ottimo rimedio: mi capitava di tanto in tanto di vomitare, magari non da mia zia, ma in casa mia; e ciò avveniva con grande disappunto di mia madre, che non mancava il giorno dopo di aggredire la sorella per quel po’ po’ di roba che mi aveva dato da mangiare. E mia zia se ne andava via mortificata e per due o tre giorni non passava in casa nostra, ma poi riprendeva a passarci e riprendeva a rimpinzare di cibo me e pure mia sorella Maria e nostro nipote Agatino.

Una notte ricordo che fui svegliato da un certo tramestio nella stanza dove dormivamo: erano i vomiti di mia sorella in un lavamano e le recriminazioni di mia madre contro zia Grazia. Poi, assistendo alla scena, senza dare alcun segno di preavviso, mi misi a vomitare anche io, sul pavimento. Ed eravamo in una stanza che aveva un pavimento a tavolato, sotto di cui abitava una inquilina; mi sono sempre chiesto se qualcosa del liquido non fosse filtrato giù.

Ma la vera giornata campale, immemorabile per la mia famiglia, fu quella di un Natale, durante la Messa di mezzanotte (Missa ‘e puddu) celebrata nella cappella dell’«Asilo Infantile Regina Margherita», quando avevo sei o sette anni. Premetto che nelle ore precedenti, dal pomeriggio fino alle 23, ovviamente mia zia mi aveva riempito di cibo di ogni genere. La Messa era accompagnata dai canti natalizi del coro delle giovani di Azione Cattolica, di cui facevano parte anche le mie tre sorelle, Angelina, Claudia e Maria. E ricordo che il coro cantava veramente bene. Ma i canti ebbero una breve sosta subito dopo la elevazione, nella pausa che precede la distribuzione delle ostie ai fedeli. Mi ricordo che nella cappella c’era un silenzio profondo, appena interrotto dai lievissimi rumori del sacerdote che si preparava alla distribuzione delle ostie. Ed allora io mi rivolsi a mia zia e parlando sommesso le dissi: Appo gana ‘e bòmbere, «Ho voglia di vomitare». E lei non si scompose, prese la falda del grembiule che aveva legato alla cinta e me la offrì perché vi vomitassi dentro. Cosa che io feci regolarmente e che di certo non sfuggì ai numerosi fedeli presenti, anche perché nella cappella regnava il silenzio generale. Inoltre si trattava non del semplice e poco espressivo “vomitare” italiano, bensì dell’assai imitativo e rimbombante bòmbere nugorese e sardo. Poi mia zia si slacciò il grembiule ormai carico di materiale molto composito e lo depose sotto l’inginocchiatoio del banco, non senza aver sussurrato a una vicina: Mischineddu, l’at fattu male su fracu ‘e s’incensu, «Poverino, gli ha fatto male l’odore dell’incenso». Subito dopo si levò per andare a prendere anche lei l’ostia consacrata, di certo fiduciosa di avere acquisito qualche merito di fronte al Signore per la mortificazione avuta dall’incidente capitato al nipote prediletto e probabilmente non senza avere pronunziato in se stessa la frase tipica nugorese Pro more ‘e Deus siat!, «(Questo) sia per amore del Signore!» (era una fervente donna di chiesa).

E intanto erano ripresi i canti natalizi del coro delle giovani di Azione Cattolica: e ricordo ancora che erano veramente bellissimi.*

*Estratto dal recente libro di M. Pittau, L’Era fascista nella provincia italiana – Il Littorio a Nùgoro e in Sardegna, Sassari 2011, EDES, Editrice Democratica Sarda.

Nota redazionale: Considero questo pezzo il mio regalo di Natale 2012. Grazie al prof. Pittau che ha accolto la mia richiesta, o “Ecco accontentata!” come direbbe lui. Nella vita possiamo fare tante cose, incontrare tanta gente, visitare luoghi straordinari, muovere alla velocità della luce dei bits and bytes che ci permettono di comunicare virtualmente… ma il giorno in cui dimenticheremo il nostro passato, il presente morirà senza speranza e il futuro non avrà senso (Rina Brundu).

Featured image Natività del Giorgione.

Tagged as: Cultura, editoria, Giornalismo online, massimo pittua, nuoro, opinioni online, Rosebud - Giornalismo online, Sardegna

Categorised in: 780, Tutti gli articoli


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :