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Natale in casa Lombroso

Creato il 24 dicembre 2013 da Albertocapece

fotonews1Anna Lombroso per il Simplicissimus

Americanate, diceva papà a proposito di Babbo Natale, dell’albero con le lucette intermittenti, dei regali nelle carte colorate coi nastri d’oro. Presepe non era, anche se le nonne pur molto ebree e molto agnostiche, nutrivano un grande rispetto per la Madonna e anche per qualche santo, primo tra tutti Sant’Antonio che aveva il merito di far trovare oggetti perduti, che si sa la casa nasconde ma non ruba.

Qualche zia si era lasciata contaminare dalla tradizione della Befana, considerata una icona più laica, memoria di una Italia ruspante, domestica e poverella, così pur disincantati, appendevamo le calze alla cappa del camino nella grande cucina col tavolone di marmo intorno al quale i cenacoli consistevano in riunioni molto battagliere, si consumavano scissioni e ricomposizioni nel sofferto contesto della sinistra, che però c’era eccome, più che vigilie e festività.

 A ripensarci quelle strenne erano terribilmente severe e pedagogiche, malgrado i nostri genitori fossero amorosissimi e generosi. Non solo perché proprio non c’erano quattrini, non solo perché vigeva un atteggiamento censorio nei confronti del consumismo, considerato sciocco, diseducativo e volgare. Ma soprattutto perché c’era la convinzione che piccoli piaceri, regali e sorprese avevano un magia superiore se appunto giungevano  inattesi e sbalorditivi.

Così nella calza bitorzoluta insieme al modestissimo contributo annuale sul libretto di risparmio aperto dalla Zia Enrichetta, cui papà e mamma attingevano immediatamente, trovavamo io libri per ragazzine,  che subivo come un’onta avendo libero accesso alla biblioteca dei grandi, mio fratello invece l’incipit per qualche collezione che veniva subito dimenticata, così che in molteplici traslochi da qualche scatola affioravano francobolli di San Marino, foglie secche tra due veline, un lepidottero mummificato.

A distanza di tanti anni, apprezzo e amo quel culto dell’essere differenti, quella decisione che allora dovette essere ardua per i miei genitori, di indirizzarci verso usi meno conformisti, di insegnarci il gusto di non uniformarci per assaporare poi la bellezza della disubbidienza. E guardo con tenerezza a quella morigeratezza ridente e a quella ragazzina penalizzata dagli orrendi golfini blu e dalle gonne a pieghe passate dalle cugine più grandi, che non avrebbe mai confessato di desiderare quello che avevano le altre, a cominciare da una Pelikan con l’inchiostro verde con cui scrivere sciocchezze sul diario, dal mangiadischi in cui infilare delle gran canzonette, dalla televisione proibitissima perché “fa  diventare cretini i fioi”, che arrivo tardissimo e molto gradita proprio dal censore, subito addict di polizieschi americani ferocie  sanguinosi o di terrei investigatori tedeschi, proprio lui che il tedesco appreso da una tata, l’aveva dimenticato nel ‘39 per uno strano processo di rimozione, addirittura  descritto come un fenomeno inspiegabile da Musatti.

Che poi la socialità si viveva allegramente, intorno a quel tavolone di marmo, dove – unico strappo natalizio alla sobrietà – si tiravano una sfoglia sottilissima per i tortelli, si rovesciava una pinza sontuosa di fichi e noci e uvette, e poi si imbandiva, con la gran zuppiera fumante in mezzo e intorno amori e amici e famiglie e risate e baruffe di politica con la Cristina che aveva salvato dei parenti dalle SS ma voleva farsi seppellire con la camicia nera, con Ermanno per il quale mio papà era e restava un “carrista” eversivo, con altre Internazionali più o meno revisioniste, con Lelio perché  professava disincanto.

È che  allora era possibile litigare, adirarsi, giurarsi rancore, per poi continuare a volersi bene, ritrovarsi con amicizia e rabbia, ogni volta, nel calore di un abbraccio, nella forza tranquilla del ragionare insieme.

 


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