Natalia Ginzburg: la Lunga Strada Verso la Città

Creato il 14 settembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Non tutte le ragazze che vivevano in famiglie povere erano dolci, brave, serie, o per meglio dire “attente all’occhio sociale”, come la famosa Mena dei Malavoglia. C’erano altre ragazze che se ne infischiavano della famiglia e pensavano solo ai propri comodi, come Delia e i suoi fratelli: protagonisti del romanzo d’esordio di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1942 con lo pseudonimo Alessandra Tornimparte a causa delle leggi razziali che, tra il 1940 e il 1943, la costrinsero, essendo ebrea, a vivere “in confino” a Pizzoli, in Abruzzo. L’autrice del ben più famoso “Lessico famigliare” (1963) rivela già nel libro d’esordio la sua vena schietta e priva di sentimentalismi, capace di trasmettere con pacatezza e semplicità quella dura realtà in cui vivono i suoi personaggi. Una realtà che mal sopportano e che tentano invano di aggirare, trasgredendo alle “normali” regole che dovrebbero governare una famiglia: il senso del decoro, la volontà di mettersi al servizio di tutti per stare meglio, la collaborazione. Ma perfino il padre è cosciente del fatto che la colpa non è dei ragazzi, ma sua e di sua moglie, i quali non hanno saputo educarli. Fatto sta che Delia a sedici anni sogna ingenuamente di sposarsi come la sorella Azalea per fuggire via dalla casa in cui è cresciuta e che detesta; tanto da correre via ogni giorno, con il fratello più piccolo Giovanni e con Nini (parente lontano che ha vissuto fin da piccolo con loro), per la strada che va in città. Quest’ultima rappresenta per la protagonista, non solo una via di scampo, un piccolo paradiso dove ritemprare lo spirito, ma il punto nevralgico della sua vicenda. Prima fugge di casa per raggiungere la città, poi dovrà fuggirla per via dello scandalo e in seguito vi ritornerà da “trionfatrice”, quando la sua trasformazione da ragazzina a donna sarà completa. In città si scoprirà a conoscere due tipi di amore: uno frivolo e ingannatore, l’altro ben più profondo e sincero.

Ma da superficiale e inesperta adolescente cederà alle lusinghe del primo senza riconoscere il secondo, se non dopo che ormai tutto è cambiato e nessuna scelta è più plausibile. Sembrerà assurdo, ma non c’è premeditazione, non c’è calcolo nella scelta di Delia che si lascia guidare solo dal suo istinto. Non sono i soldi che le interessano e neanche uno status sociale, ma la libertà. Perché in fondo solo questa interessa alla protagonista, ma gliene viene concessa tanta da farla ubriacare e permetterle di mettersi da sola con un piede nella fossa. Tanta spensieratezza offuscata dall’ignoranza. Una vita passata a sfuggire la noia che rimane sempre acquattata dietro l’angolo, anche quando si è raggiunto il proprio obbiettivo. E forse è questo il tema centrale del romanzo: la noia. Tutti soffrono di noia: Delia che non sopporta la sua piccola e sudicia casa, Nini che passa il tempo a leggere e a bere, Giovanni che appena può scappa in città, Azalea che insoddisfatta della sua vita va in cerca di amanti, Giulio che pur essendo impegnato con lo studio va a caccia e non dimentica di accattivarsi Delia. Una noia che non abbandonerà la protagonista neanche alla fine del romanzo, quando si trova seduta in un bar a parlare del più e del meno con suo fratello e Antonietta (una brava donna con cui Giovanni si intrattiene) senza il coraggio di parlare della disgrazia, “perché i morti fanno paura”. E non stupisce che una persona così superficiale come la protagonista abbia paura della morte e non desideri parlarne. Forse è per lei un argomento troppo profondo, un argomento che la scuoterebbe troppo dal suo quieto e noioso vivere pieno di agiatezze. Ma guardando ad oggi non sembra ci siano particolari differenze, se non nella consapevolezza di determinati meccanismi. Una consapevolezza necessaria per affrontare il mondo senza perdere la strada come Delia.


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