Naxos Song, capitolo XI.

Da Loredana De Michelis @loridemi
"...Si dice che a Naxos, durante l’occupazione italo-tedesca della seconda guerra mondiale, ci fossero tremila soldati italiani. Cosa ci facevano lì in tremila, quando la popolazione intera dell’isola era poco di più? Semplice: mangiavano costicine alla brace mentre tenevano d’occhio Astipalea, che avevano occupato ben vent’anni prima e che faceva parte di un confuso trattato disatteso, per il quale si continuava a litigare con tutti: tedeschi, inglesi, ottomani, greci. Gli italiani erano tornati a guardia di un confine con l’oriente come in passato, con le stesse vane speranze di possesso. A Syros avevano aperto una scuola e i bambini isolani avevano imparato a parlare un italiano forbito e cortese.
Dopo l’8 settembre 1943 però, gli italiani dovettero ritirarsi dalle isole greche. I 3000 italiani di Naxos furono sostituiti nella gestione militare dell’isola da soli 70 tedeschi, che si erano acquartierati nel Castro ed erano comandati dalla S.S Erwin Strittmatter.

  Questa cosa, dei sudditi che si recavano al Castello ogni mattina a dorso d’asino, portando in dono grappoli d’uva ancora tiepidi di sole, per poi sparire in silenzio, a Erwin Strittmatter piaceva assai.
  Lui passava le mattine a tuffare lo sguardo nel regno dell’azzurro infinito, in cima alla torre di Crispi spazzata dai venti. Riposava in letti di squisita fattura veneziana, con i materassi imbottiti di piume, nelle le stanze dai soffitti intarsiati, piene di storia e ritratti di nobili guerrieri. Gli pareva persino che i santi bizantini delle icone facessero un cenno con la testa al suo passaggio.   Di sera Erwin vagava nel Castello illuminato dai candelabri, ascoltando musica di Wagner e sorseggiando vino dal calice della messa, mentre meravigliosi sonetti si formavano nell’aria pronti per essere trascritti.   Avrebbe potuto dimorare colà per infiniti giorni di albe e tramonti, sotto cieli trapuntati di stelle. E invece, come sempre capita quando stai vivendo un momento top, arrivò qualcuno a rompere le uova nel paniere: una bella mattina di Ottobre del 1944, cielo terso e mare calmo, una corvetta inglese si era materializzata nelle acque del porto di Naxos, a guastare il panorama.
  La radio nella sala comando in cima al Castro gracchiò, mentre una voce nasale annunciava: “Qui corvetta ptkz della reale marina prrfzt. Avete perso, arrendetevi.”
  Erwin corrugò la bella fronte ariana, cercando di non lasciarsi scappare il finale del poema che aveva iniziato la sera prima. Decise che avrebbe aggiustato la radio più tardi e imboccò lo scalone per andare a fare colazione.
  La gracchiata dell’inglese tornò a infastidirlo: “Uscite di lì con le mani alzate, veniamo a prendervi con una scialuppa. Portate pure il vino e il formaggio, ma lasciate giù le armi”.
  Gli occhi azzurri di Erwin si fecero duri come diamanti: quel mozzo di un inglese stava davvero approfittando della sua pazienza. Afferrò la radio e con voce stentorea, forse un po' troppo stridula, disse: “Giammai! Combatteremo fino a che l’ultimo anelito di vita sarà spirato dalle nostre mortali spoglie!”.
  Ai 70 soldati tedeschi quella era sembrata una bella frase, ma nell’ultimo anno a Naxos si erano pure abbastanza affezionati alla vita. Mestamente si piazzarono alle feritoie del Castro, puntando le mitragliatrici.
  Erwin si vestì di tutto punto, prese i suoi diari, un bicchiere di vino e si ritirò con alcuni ufficiali nella Cappella Kasatza, dove il ritratto di Filippo Qualcosa di Francia lo guardava comprensivo.
  Il comandante inglese intanto stava osservando il Castro dal mare. In ogni feritoia si scorgeva un minaccioso baluginare di armi puntate. La pianta del Castro non era pervenuta. Da quel che poteva vedere, si trattava di una costruzione gigantesca su più livelli con mura spessissime, innumerevoli posti dove rifugiarsi e un accesso minuscolo. Più lo osservava, più gli sembrava una grossa, ingegnosa trappola per topi: tentare di invaderla da terra, con i tedeschi che facevano il tiro al bersaglio dall’alto, voleva dire ecatombe sicura. Un colpo di cannone, da quella distanza e a quell’altezza, posto che centrasse il bersaglio, avrebbe solo scalfito le case dei patrizi veneziani che avvolgevano il Castro come una sciarpa amorevole, senza arrivare a intaccare le mura interne.
  Il comandante inglese si accese un sigaro.
  Stettero 24 ore a spiarsi reciprocamente, mentre la radio taceva da entrambe le parti.
  Dal paese intanto erano scappati anche i gatti. I vecchi pescatori avevano spostato le barche nella baia di Prokopio e si erano rifugiati sulle colline di Plaka turandosi le orecchie. A turno salivano su un masso e davano un’occhiata. La corvetta aveva manovrato per non esporre la fiancata e mettersi di prua, puntando il cannone. Ponte deserto, nessuna attività in vista.
  I naxioti si misero a mangiare un po’ di pane e pomodori e commentarono amaramente che era sempre la stessa storia. La notte era limpida e ad un certo punto qualcuno attaccò a suonare un Buzuki. Un gruppo sparuto di partigiani era sceso in spiaggia tentando segnali verso l’isola di Paros con un piccolo lume, senza ottenere risposta.
  All’alba del giorno successivo si alzò il vento. L’ufficiale inglese era rimasto tutta la notte in sala di comando a guardare le finestre del Castro, dove ogni tanto s’intravedeva una luce furtiva. Spense il sigaro e si fece passare il comando della portaerei che stava passando al largo di Santorini: “Qua ci sarebbe da derattizzare una roccaforte sopra una collina” e diede le coordinate.
  Due aerei della R.A.F. si alzarono in volo diretti a Naxos. La gente che aveva passato la notte a Plaka li sentì arrivare da sud come un terremoto: alcuni si presero per mano e si sorrisero mestamente per farsi coraggio, mentre i bambini stavano accucciati tra le braccia delle loro madri, come capretti tremanti.  I bombardieri scesero in picchiata sul Castro e sganciarono quattro bombe in sequenza, che caddero tutte in un raggio inferiore ai cinquecento metri. Due palazzi gentilizi della prima cintura esplosero disintegrandosi.   Erwin sfoderò uno sciabolotto persiano intarsiato che aveva trovato in una cassapanca: lo puntò contro la volta della cappella Kasatza, pronto a morire, e pronunciò un’altra frase eroica indimenticabile, che però nessuno riuscì a sentire per via del frastuono.
  La bomba arrivò arrivò sibilando, sfondò il tetto della cappella e piombò sul pavimento di marmo: emise un ronzio da mosca arrabbiata e poi tacque, immobile.   Se fosse esplosa avrebbe decretato la fine del Castro, perché sotto la cappella Kasatza ci sono almeno altri cinque piani vuoti: penetrando fino alle fondamenta, la forza d’urto avrebbe probabilmente aperto la roccaforte in due parti. Invece la bomba stava lì inerme, e non era esplosa neppure quella che era caduta all’interno della Metropoli Ortodossa: due bombe su quattro avevano centrato costruzioni religiose e non erano esplose. Il Pope cadde in ginocchio rendendo grazia. Erwin pure cade in ginocchio, per un mancamento.   Piano piano, in punta di piedi, per non disturbare il mostro che dormiva nell’uovo di metallo grigio sul pavimento della cappella, i 70 tedeschi uscirono dal Castro e si consegnarono senza opporre ulteriore resistenza.
  Il 15 ottobre 1944 Naxos era libera: i prigionieri tedeschi si allontanavano all’orizzonte a bordo della corvetta inglese e alcuni guardavano indietro, con un po’ di nostalgia. “Un giorno mostrerò tutto questo a mio figlio” pensò uno di loro. E così avrebbe fatto.
  Erwin Strittmatter si era messo a scrivere una poesia d’addio e guardava al futuro: se collaborava e non lo processava nessuno, nella Germania dell’est avrebbe potuto fare carriera e diventare persino un poeta famoso. E così accadde.
  I partigiani dell’Isola s’impossessarono delle armi abbandonate nel Castro. Un paio di Sikh con un turbante che ai naxioti non piaceva proprio per niente, si presentarono per disinnescare le due bombe inesplose, ma anche queste erano sparite, probabilmente ascese al cielo per essere santificate.
La vita riprese: adesso non c’era più nessun oppressore ma c’erano tante di quelle armi e di quell’esplosivo che si poteva organizzare qualche rivolta nuova. Si cominciò a discuterne nelle taverne, mangiando fichi secchi e bevendo ouzo..."

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