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Nazione e inter-nazionalismo

Creato il 03 febbraio 2012 da Jitsumu
Nazione e inter-nazionalismo

«Gli ideologi ufficiali della Nuova Comunità Europea prevedevano una rapida unione economica e monetaria, che conducesse ad uno Stato politico comune. Il grande processo capitalistico di integrazione, avviato negli anni '50, avrebbe prodotto gli Stati Uniti d’Europa ben prima della fine del secolo. In questa unificazione –insistevano i visionari– i temibili antagonismi del secolo precedente sarebbero stati sconfitti definitivamente. Una pacifica Europa post-nazionalista costituiva sempre la parte più forte delle loro argomentazioni.
Dall’altra parte, questa nuova Europa borghese fu sfidata da una nuova generazione di rivoluzionari. Ma, inevitabilmente, nel nome di una concezione non meno universale. La nuova sinistra anarchica e comunista che raggiunse la sua vetta più alta di militanza nel 1968 e 1969 prevedeva una rivoluzione sociale: il rifiuto di massa del consumismo e del capitalismo, non una crisi del sistema di stati nazionali. Che la rivoluzione scoppiasse in un punto o in un altro, avrebbe avuto valore universale, e quindi si sarebbe diffusa in Europa (almeno) con relativa rapidità. Per una strana coincidenza, il lato millenarista del movimento concordava con gli oppositori capitalistici. In termini di slogan, era fin troppo facile inserire la parola 'Socialisti' negli Stati Uniti d’Europa in formazione e ritenere che la rivoluzione da sola avrebbe potuto far avverare il sogno.
La storia ha tuttavia il potere di smentirci tutti. Certamente essa ha messo in imbarazzo gli avanguardisti dell’unità europea. Dopo la scomparsa di De Gaulle il processo non è andato avanti più facilmente; esso è affondato in sempre maggiori difficoltà, quando le classi di governo europee hanno affrontato il problema di collaborare in un più severo clima economico, e contro la più definita opposizione degli Stati Uniti. Tuttavia queste difficoltà hanno contribuito poco a favorire la sinistra rivoluzionaria. Sono le varie forme di riformismo nazionale, alcune guidate dai social-democratici, altre dai Partiti Comunisti, che hanno effettuato una certa e limitata avanzata dopo il 1970. Questo movimento è abbastanza esitante ed incerto sui propri fini e le proprie possibilità; ed è rimasto in gran parte limitato alle strutture dei vecchi stati nazionali. In altre parole, esso rimane legato al 'socialismo in un solo paese'. Ma quale paese? Questa domanda è diventata altrettanto importante dell’altra: quale socialismo? I profeti del capitalismo e della rivoluzione sono rimasti altrettanto confusi al riguardo. Ciascuno mirava a qualche forma di trascendenza dello stato-nazione, ad un più alto livello; nessuno pensava che esso potesse regredire ad un livello apparentemente più basso. Si pensava che sarebbero state le corporazioni multinazionali o i socialisti rivoluzionari a suonare la sua campana a morto, non gli insorti nazionalisti».
Fin qui l’analisi di Nairn ("Crisi e neonazionalismo", Liguori); che ci dice ad un tempo molte cose: come la tendenza al superamento delle 'barriere' nazionali tradizionali sia connaturata al capitalismo; come la lotta anticapitalistica che si fonda esclusivamente sul socialismo rivoluzionario e la dimensione internazionalista della lotta di classe si rivela perdente; come la rivendicazione 'nazionale' sia oggi la più efficace a contrastare le tendenze cosmopolite del capitalismo e a metterne in discussione le stesse basi attuali. È d’altra parte altrettanto vero che la prospettiva 'nazionale', di per sé, può risultare parzialmente efficace, se priva di incisività su un altro versante strutturale del capitalismo, e cioè lo sfruttamento di classe. Ne consegue che dall’incontro delle due diverse prospettive può scaturire il massimo dell’efficienza politica per la lotta al sistema capitalistico. Un incontro, un’alleanza che è peraltro quanto mai attuale e naturale.
Questo perché la tendenza 'mondialista', denazionalizzatrice, del capitalismo contemporaneo, colpisce direttamente ed in misura crescente gli interessi delle classi lavoratrici. Infatti, mentre «il capitale e i capitalisti fuggono, emigrano, si 'mondializzano', chi resta qui, nella nazione? In primo luogo il lavoro perduto, i salariati licenziati, i cassintegrati, i disoccupati e quelli che non troveranno mai occupazione, gli 'inoccupabili', la cosiddetta 'popolazione eccedente'; essi non hanno nemmeno più come un tempo la possibilità di essere venduti sul mercato mondiale del lavoro, perché l’offerta di lavoro è esuberante ovunque; dovranno restare per forza all’interno dei confini fisici della Patria; in secondo luogo gli operai e gli impiegati che difendono disperatamente il lavoro che ancora hanno e lottano contro gli effetti perversi della 'razionalizzazione' e della deindustrializzazione, contro la chiusura selvaggia delle fabbriche e delle imprese; in terzo luogo, gli artigiani, i piccoli industriali, gli imprenditori e tutti coloro che senza certezze di alcun genere impegnano contemporaneamente, in Italia, il proprio lavoro e le proprie risorse economiche e si dibattono in balìa delle conseguenze delle costrizioni del sistema economico mondiale, del suo caos permanente, degli effetti della concorrenza senza regole, dell’incertezza degli sbocchi esterni, delle difficoltà di finanziamento, dell’enormità del costo del denaro, dell’altalena incontrollata delle monete, della dittatura del dollaro. Qui si materializza l’essenza costituzionale della patria, l’idea moderna di Nazione» (F. Gaja, «Urge una nuova definizione della nozione di "interesse nazionale"», in: Maquis/dossier, n. 1). È chiaro quindi che proprio la difesa degli interessi particolari di classe deve spingere i lavoratori ad assumere la portata nazionale dello scontro –intesa come rilevanza e caratterizzazione nazionale della conflittualità tra interessi di classe e tendenze internazionalizzatrici e "mondialiste" del capitalismo. Si rende perciò necessario il superamento dei pregiudizi 'anti- nazionalisti', che hanno trovato storicamente la loro ragion d’essere in una fase in cui –diversamente da oggi– il nazionalismo veniva utilizzato strumentalmente dall’ideologia capitalista, e dunque da questa risultava condizionato. Perché «il nazionalismo (…) non è una questione di semplice identità (come spesso si pensa). Essere diversi dagli altri, avere una fisionomia riconoscibile e articolata sono condizioni necessarie ma mai sufficienti per il suo sviluppo. La condizione sufficiente, il catalizzatore, è qualcosa di più (…) Il mito mobilitante del nazionalismo consiste in un’idea del popolo. Questa non deve essere confusa con un concetto astratto, per es., del valore della classe operaia. Deve essere una nozione, concreta, emotiva, ancorata all’esperienza e al folklore popolare. Quest’idea delinea la (…) autonoma iniziativa del popolo: la rivoluzione, il rovesciamento dell’oppressione straniera, la guerra di liberazione» (T. Nairn, ibidem). Ciò perché una sperequazione economica e sociale, anche spaventosa, determina sì una reazione 'di classe', ma «il conflitto di rado diventerà feroce o si intensificherà all’infinito, contrariamente alle previsioni marxiste, a meno che i privilegiati e gli altri non possano identificare se stessi, e identificarsi reciprocamente in termini culturali» (E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Ed. Riuniti). La lotta dei lavoratori neri sudafricani è, da questo punto di vista, paradigmatica.
La questione nazionale assume ovviamente una diversa rilevanza secondo il contesto specifico, la natura dei rapporti internazionali in cui viene ad inserirsi. Ovviamente, diversa è la rilevanza della questione nazionale, ad es., in Irlanda od in Corsica –che sono a tutti gli effetti delle colonie– da quella che può avere, per rovesciare l’esempio, in Gran Bretagna e Francia. ma la diversità non consiste nell’esistenza o meno della 'nazionalità' (e quindi della sua attualità e valenza politica), quanto nel diverso 'peso' che essa assume nella prospettiva della lotta politica.
Tanto per rimanere ad uno degli esempi citati, e che viene convenzionalmente ritenuto il caso più esemplare in Europa, ovvero l’Irlanda, l’analisi sviluppata dal movimento repubblicano dai primi anni '70 in poi (cioè da quando –liberandosi dalla 'cappa' costituita dalla dirigenza 'stalinista' con la 'scissione' Provisional– ha cominciato una 'lunga marcia' dalle posizioni del nazionalismo borghese a quelle di un socialismo popolare irlandese) ha identificato con notevole precisione proprio nel 'Free State', nella repubblica del sud, la vera e migliore colonia di Londra. Questa è la riprova che la natura coloniale di una nazione non è strettamente legata a forme palesi di dipendenza; la presenza di un esercito occupante, così come l’esistenza di forme di governo 'dipendente', costituiscono certamente la riprova di uno status coloniale, ma questo non è assente in assenza di tali elementi di riprova. Da un punto di vista politico, il punto è dunque quanto incide (quanto deve incidere) nella lotta politica il grado di evidenza dello status coloniale. Il quesito da sciogliere, al riguardo, sarebbe: quanto –e come– incide l’esistenza sostanziale di un rapporto di subordinazione e dipendenza? Se è giusto, com’è giusto, lottare per abbattere un rapporto di subordinazione tra classi, per giungere ad una pari dignità tra lavoratori, a prescindere dalle capacità di ciascuno, altrettanto giusto è battersi per un rapporto paritetico tra le nazioni del mondo, senza cioè che la maggior forza di una venga esercitata a danno delle altre. E se quest’esigenza è tanto più valida quando l’oppressione di classe è dissimulata, altrettanto si può e si deve dire per l’oppressione imperialista.
Rivendicare la piena e completa indipendenza nazionale non è una questione che si esaurisca negli aspetti formali delle istituzioni politiche, ma che deve incidere sui piani sostanziali, quelli che davvero hanno valore di identificazione per quanto attiene la natura dei rapporti internazionali.
Appare comunque evidente che porre nella giusta rilevanza la questione nazionale non significa sottovalutare altri aspetti della dinamica politica, né tantomeno affermare diritti di predominio 'etno-culturalmente' giustificati. Non si tratta di mettersi in concorrenza con l’imperialismo o di dar vita a forme di sub-imperialismo (è quello che invece fanno i governi dipendenti d’Europa), né tantomeno di cercare in un confronto inter-nazionale il compattamento sociale necessario a mantenere la divisione di classe all’interno; questi sono sicuramente dei rischi connessi al perseguimento di un progetto politico di rivendicazione nazionale (peraltro legati alla natura socio/politica di chi dirige la lotta), ma anche l’affogamento è tra i rischi del nuoto: non per questo si rimane a riva a guardare.
Non si tratta nemmeno di perseguire l’obiettivo del 'socialismo in un solo paese', perché l’esperienza storica insegna che questo non può sopravvivere autarchicamente nel 'mercato mondiale'. Ma sicuramente, dovendo abbandonare l’utopia della rivoluzione socialista mondiale, che esplode più o meno contemporaneamente ovunque, e dovendo comunque 'ripiegare' realisticamente sulla lotta per il socialismo nel proprio paese –come primo passo– ciò vuol dire che dovremo intendere la dimensione nazionale come un 'confine culturale', come il 'limite' di un’identificazione collettiva, ma non come una barriera. Realizzare la liberazione della nazione costituisce un passo verso la liberazione di tutti coloro che la compongono, ma non, di per sé, la realizzazione piena di questo obiettivo. Occorre quindi, di sicuro, che ad essa faccia seguito la liberazione degli oppressi della nazione –e, se ve ne sono, dalla nazione.
Riconquistare indipendenza nazionale significa muoversi nell’unico modo –e nell’unico senso– possibile per giungere concretamente alla riconquista di una 'possibilità di socialismo'. La liberazione nazionale è la conditio sine qua non della rivoluzione. Le due cose possono darsi contemporaneamente, laddove le condizioni storico/politiche lo consentono, ma non può esserci rivoluzione senza libertà nazionale.
C’è un legame inscindibile tra popolo e nazione, anche se «il nazionalismo è stato troppo spesso identificato con il sentimento di lealtà verso uno Stato, invece che verso un popolo e un territorio» (A. Melucci/M. Diani, Nazioni senza stato, Loescher); infatti «l’avvento del nazionalismo in senso specificamente moderno fu legato al battesimo politico delle classi popolari. Il loro ingresso nella storia fornì un’essenziale condizione preliminare per la trasformazione della nazionalità in un fattore centrale e determinante. E questo perché (…) i movimenti nazionalisti sono stati immancabilmente populisti nelle prospettive e hanno tentato di introdurre le classi popolari nella vita politica. (…) Quando è stato vincente –e naturalmente, nonostante vi siano implicati molti altri fattori e l’ideologia nazionalista abbia sempre esagerato il suo ruolo, esso è stato nella maggior parte dei casi vincente– questo ruolo positivo è stato determinante nelle storie politiche successive di tutte le società. Esso spesso ha determinato il mito chiave dello sviluppo politico seguente. Come sua principale caratteristica, questo è forse il mito della rivoluzione popolare o della lotta di liberazione nazionale –un modello di azione popolare e di coinvolgimento di massa che minaccia lo Stato e che si è rinnovato ripetutamente durante le ultime generazioni» (T. Nairn, ibidem).
Sulla base di queste considerazioni, si può affermare che la rivendicazione di carattere 'nazionalitario' non costituisce affatto, di per sé, una pericolosa manifestazione di sciovinismo, di interesse esclusivo per le classi dominanti, di imperialismo in pectore. Ciò tanto più oggi, che le classi dominanti 'nazionali' dimostrano sempre più di considerarsi ed essere un’unica classe sovranazionale, e che le tendenze economiche e politiche espresse da quest’oligarchia-senza-patria puntano decisamente verso l’abbattimento di qualsiasi frontiera (persino di quelle doganali, che essa stessa ha in passato voluto).
Rivendicare la propria identità è, oltre che una primaria esigenza dell’uomo, indispensabile a stabilire rapporti equilibrati con gli altri. E questo vale tanto più a livello di collettività. Per questo motivo non sarà mai possibile costruire un sistema di rapporti inter-nazionali giusto ed equo senza che, prima, le singole nazioni abbiano raggiunto la propria, reale, indipendenza.
Indipendenza
(* estratto dal documento fondativo di Indipendenza. Spunti di riflessione per una lotta di sovranità, indipendenza, liberazione)

Da appelloalpopolo.it

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