(Nebraska)
Regia di Alexander Payne
con Bruce Dern (Woody Grant), Will Forte (David Grant), June Squibb (Kate Grant), Bob Odenkirk (Ross Grant), Stacy Keach (Ed Pegram), Mary Louise Wilson (Zia Martha), Rance Howard (Zio Ray), Tim Driscoll (Bart), Devin Ratray (Cole), Angela McEwan (Peg Nagy).
PAESE: USA 2013
GENERE: Drammatico
DURATA: 110’
Alcolizzato e malandato, padre snaturato e assente, il vecchio Woody Grant si convince cocciutamente di aver vinto un milione di dollari grazie ad un coupon inviatogli per posta. Per ritirarlo deve andare dal Montana al Nebraska. Nonostante l’evidente fregatura, lo accompagna suo malgrado il figlio minore David, dalla vita parecchio incasinata…
Sesto film di Payne, scritto da Bob Nelson. Probabilmente il migliore. Un piccolo, grande racconto on the road, una ballata folk con una prima parte molto, molto divertente e una seconda amara e malinconica che sa di contemplazione della morte. Il vecchio Woody vuole raggiungere il Nebraska – un Nebraska in bianco e nero che sembra quello delle canzoni di Bruce Springsteen – non tanto per i soldi, quanto per correre dietro al proprio tempo prima che giunga al termine. Come Una storia vera di Lynch, è un film lento come la camminata del suo protagonista, fascinoso perché si basa su un paradosso (il tempo a disposizione è poco, eppure i protagonisti divagano, si fermano, riflettono) che sa di metafora umana. L’ineluttabilità della morte presa a schiaffi con le sue stesse armi: i protagonisti si riprendono il tempo perdendolo. Attorno, come sempre accade nei film di Payne (a partire dall’ottimo Sideways), un’America di provincia becera e senz’anima, in cui anche i vecchi si consumano davanti alla TV in attesa di morire e sentimenti basilari come l’amicizia, la fratellanza, il rispetto sembrano non essere mai esistiti.
La famiglia come incubo, ma anche come unica salvezza (anche quando è malata, come in questo caso, è l’unica che c’è), in una sorta di pessimismo generazionale che porta, nel finale, ad una fatidica domanda: David diventerà come suo padre o, dopo averlo conosciuto davvero, ne resterà il più lontano possibile? Coraggiosa la scelta di girare in bianco e nero (strepitosa la fotografia di Phedon Papamichael): da un lato sottolinea la malinconia e il grigiore delle esistenze dei protagonisti, dall’altro ribadisce un concetto di cinema “puro” privo di orpelli e scarnificato, essenziale e minimalista come l’umorismo (irresistibile) che accompagna il film. Un film “senza”: senza fretta, senza eventi drammatici, senza troppe parole, senza un vero e proprio messaggio. E il finale è molto meno lieto di quanto potrebbe sembrare: Woody ha la sua piccola vittoria, ma il rapporto padre-figlio appare comunque risolto soltanto in una direzione. Magnifiche le musiche di Mark Orton (tra i fattori principali a garantire la riuscita del film) e magnifiche le interpretazioni del 77enne Dern, nominato all’Oscar e premiato a Cannes, e della 84enne Squibb. Regia di suggestiva e impeccabile eleganza. Uno di quei film felici in cui tutto funziona, un piccolo, imperdibile capolavoro.