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Nebraska, cronaca di un sogno mai nato

Creato il 03 febbraio 2014 da Ilcirro

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Chiunque subodorerebbe un inganno, vero?

NEBRASKA

Ma Woody Grant no. Lui ci crede. Questo vecchio cocciuto, stralunato, decide di attraversare due stati, ad ogni costo, contro tutto e tutti, persino a piedi, per raggiungere i suoi soldi; persa ogni speranza di dissuasione, al figlio David non resta che accompagnarlo. Durante il viaggio in Nebraska, un piccolo incidente costringe la coppia ad una deviazione verso Hawthorne, il paese di origine della famiglia Grant: qui il vecchio Woody viene raggiunto dai parenti e dagli amici per una “rimpatriata”….

Nebraska si mostra come un classico road movie a stelle e strisce, immerso nel grande cuore del midwest americano: Alexander Payne non lavora ad un nuovo stile, ma sui toni e le atmosfere che hanno fatto la storia di uno dei grandi generi del cinema. Innanzitutto il colore, un magnifico, monotòno bianco e nero dal contrasto esile (direi meglio: un grigio chiaro ed uno scuro); poi i dialoghi, che si dipanano per sottrazione: quante cose si fanno intuire ma non si dicono; quindi l’umorismo di fondo, un’ironia folgorante, ora gelida, ora carezzevole.

La provincia americana appare un antro buio, percorso da egoismi e solitudini: qui il sogno americano non si è mai realizzato, anzi, forse non è mai nata una sola idea di futuro. Quelle comunità chiuse, dove prevale la difesa esasperata dell’indivudialismo e la diffidenza verso l’altro, dove gli uomini sono ladri gli uni per gli altri e dove le donne sono puttane le une per le altre. Dove è più facile menare un ceffone che lasciare una carezza, dove è più facile insultare che amare, dove è meglio stare zitti che esprimere un sentimento.

Siamo ben al di là dell’iconografia springsteeniana: qui non ci sono eroi, terre promesse, bassifondi tumultuosi ma vitali, bensì solo grandi spazi aperti sul nulla, uomini e donne alle prese con un deserto interiore, arido e gelido (guardate la famiglia Grant finalmente riunita.. davanti a un televisore…): letterariamente parlando, il Nebraska di Payne è più vicino alla Spoon River di Lee Masters che alle strade aperte di Kerouac.

E siamo ben lontani dalla visione ancestrale di Ford: non ci sono pionieri, non c’è una frontiera da conquistare palmo a palmo; persino il ritorno alle radici è vuoto e senza speranza, ma serve solo a ridestare vecchi rancori e a crearne di nuovi.

Opera intima e delicata, sottile come il lamento di un violino, Nebraska si avvale dell’interpretazione di un grandissimo Bruce Dern, premiato come miglior attore a Cannes 2013. Straordinaria la fotografia: da notare gli stacchi tra le varie sequenze del film, ognuna delle quali inizia con l’immagine di un luogo, sia esso la campagna, una strada, un edificio, come tante cartoline di un presente immobile, o di un passato lontano, forse solo immaginato. Attraente la sceneggiatura, cui possiamo perdonare un lieto fine che sa di deja-vu, ma che, con tutto quello che è già stato raccontato, serve solo a dire che la vita continua, qualunque essa sia, e qualunque cosa accada.

Nebraska è un canto elegiaco su un futuro mai nato, una ballata dolce-amara su un piccolo mondo perduto nel grande cuore dell’America, un pugno di uomini destinati a sopravvivere, alla ricerca di sé stessi. Se solo lo sapessero.


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