Alcune cose accadono probabilmente per caso, in maniera totalmente inaspettata, come quando scopri che Marco Mathieu, storico bassista dei Negazione, vive e lavora nella tua città a tua completa insaputa. Non ne sono certo, ma credo che il quartetto torinese sia uno dei pochi nomi in grado di mettere d’accordo le varie anime che compongono sia il nostro staff sia i nostri lettori. Sono riuscito a incontrarlo in uno storico bar in Viale Trastevere, oltretutto non molto lontano da dove vivo. Ecco il resoconto di questa chiacchierata.
Quest’anno sono passati 30 anni esatti dal primissimo concerto dei Negazione e l’anno scorso erano 20 dal vostro scioglimento. Se dovessi fare un bilancio generale cosa diresti? Quali sono stati i rimorsi e le soddisfazioni più grandi?
Marco Mathieu: Una domanda che vale tutto. Guardando indietro credo che sia stata un’esperienza fondamentale per la mia vita, questo a livello personale, durante la quale ho avuto modo di imparare un sacco di cose e impostare un atteggiamento nei confronti del mondo che poi ho continuato a cercare nel lavoro e nella vita. Un’esperienza irripetibile, anche per il periodo storico in cui è avvenuta: guardando indietro, noi non ci aspettavamo che ancora tanti anni ci saremmo trovati in certe situazioni come con te ora a parlare, o a riscontrare attraverso il web un’attenzione, un legame che si è mantenuto con la gente che allora ci ascoltava, con quelli che sono venuti dopo, che non hanno avuto modo allora di vederci dal vivo e che evidentemente hanno trovato qualcosa in quello che facevamo. Rimpianti e rimorsi per fortuna non ce ne sono, non facevano parte dello statuto sociale del gruppo, così come nessuna tentazione di riformarci e di replicare qualcosa che ha avuto senso in quel periodo e che ora non ne ha più.
Ora che cosa pensi di alcuni gruppi della vecchia guardia che si sono riformati, come Impact o Peggio Punx, che recentemente hanno fatto un concerto reunion ad Alessandria? E di chi ancora continua a suonare, come i Nabat?
Intanto nessun tipo di giudizio nei loro confronti, molti di questi sono anche amici e li rispetto, non è che quello che valeva per noi debba valere anche per gli altri, per noi non aveva senso riformarci mentre per questi gruppi magari lo ha. Però c’è anche una sostanziale differenza: è vero che siamo nati in quel periodo con quei gruppi che erano nostri amici, però abbiamo fatto un percorso molto più lungo, mentre tutti i gruppi che tu hai nominato si sono sciolti troppo presto, noi invece quando quei gruppi si sciolsero trovammo un motivo in più per andare avanti, anche se poi iniziammo anche a sentirci un po’ soli. In realtà è stato un periodo in cui abbiamo avuto il modo di esplorare contesti diversi e di suonare con gruppi diversi, ad avere una popolarità diversa di molte band dell’epoca, che ci ha portato ad avere un respiro più internazionale e a suonare in Europa e in America. In totale, in 9 anni, dal 1983 al 1992, abbiamo fatto credo quasi 1000 concerti, percorrendo quasi tutta quella che era la nostra storia. Per quei nomi è forse stata una storia interrotta che hanno avuto il bisogno di riprendere, mentre noi siamo anche cambiati molto nel corso degli anni, abbiamo cambiato stile. Infine, io personalmente non ho un grosso interesse verso i gruppi che si riformano, semplicemente per il fatto che spesso sono peggio di come erano una volta, ma questa è una considerazione assolutamente personale. Ricordo che comunque noi quando suonavamo ci dicevamo che le reunion non ci piacevano.
In tutto l’universo dell’hardcore italiano ci sono stati molti gruppi che hanno avuto pochissimo spazio, secondo te quali sono i nomi che meriterebbero di essere rivalutati e che ora stanno in qualche modo riemergendo nella memoria collettiva? A me prima di tutti vengono in mente gli Upset Noise, il cui demo è stato ristampato da poco.
Io sinceramente credo che ogni gruppo abbia avuto modo di fare la sua storia. Noi ci muovevamo al di fuori di un circuito “ufficiale”, probabilmente non è stato facile andare avanti e cercare un circuito europeo, voleva dire fare anche una serie di sacrifici che non tutti erano disposti a fare. Quindi credo che ogni gruppo abbia avuto la storia che in qualche modo si meritava. Chi c’era lo sa, ci sono stati dei gruppi che hanno avuto un’esistenza abbastanza effimera, credo più di tutti gli Indigesti: sono stati epocali, ma erano debolissimi per certi aspetti che non vanno né sul disco, né sul palco ma che fanno parte della storia delle band, che sono legate all’unione, al rapporto tra loro, alla disponibilità di buttarsi su un furgone e girare senza soldi come dei pazzi. Parliamo del primo periodo della scena italiana, nel quale i Raw Power erano indubbiamente il gruppo italiano più popolare negli Stati Uniti, i CCM di Pisa in qualche modo lo erano in Italia e i Negazione in Europa. Poi con tutto il resto: c’erano i Kina che giravano tanto, c’erano gli Impact, c’erano i Wretched che però avevano uno stile un po’ più diverso, però parlando di hardcore le cose erano così. Tutto è cambiato intorno al 1986: noi abbiamo continuato a suonare, abbiamo avuto una storia che ci ha portato a suonare con dei gruppi che magari facevano un’evoluzione stilistica dell’hardcore e andando poi in altre direzioni. Abbiamo avuto un’esplosione in Italia nel periodo in cui meno ce l’aspettavamo, in cui c’è stato l’incrocio col pubblico metal e nel quale siamo anche andati a suonare al Monsters Of Rock. Nel frattempo molti altri gruppi si son persi per strada, la nostra storia è stata particolare e unica proprio perché ha attraversato periodi diversi, per quanto solo nell’arco di 9 anni.
Va detto però che avete ottenuto maggiori consensi in un periodo in cui le sonorità erano diventate ben più accessibili, molto dopo Mucchio Selvaggio e Condannati A Morte Nel Vostro Quieto Vivere. Già con Lo Spirito Continua s’era aperto un discorso più melodico che vi ha portato quindi ad un pubblico diverso. Cosa pensi di chi guarda con sospetto questa vostra scelta?
Non so, mi viene da ridere. Soprattutto da Lo Spirito Continua in avanti era evidente come in noi convivessero due tendenze diverse: una più pesante, che in qualche modo aveva attinto dalle sonorità più dure del metal (perché semplicemente era la musica che ascoltavamo) e una più melodica. Basta pensare che a un certo punto facemmo quindi due dischi diversi, un 7” a 45 giri, Sempre In Bilico, per contenere i pezzi melodici, e Behind The Door per quelli più duri e pesanti. Chi pensa, come chi lo pensava allora, che questa scelta derivasse dalla necessità di rendersi più accessibili, mi spiace dirlo ma è semplicemente un cretino, anche perchè già avevamo uno zoccolo duro di pubblico. Ti basti pensare che quando decidemmo di scioglierci già avevamo avuto una richiesta di contratto da una major italiana e dalla SST, però né l’una né l’altra sono servite ad arrestare il processo di autodistruzione che avevamo messo in atto tra di noi.
Da cosa è stato determinato questo processo?
Mah, rileggendola oggi credo che noi non avessimo più nulla da dire. Non siamo mai stati musicisti professionisti, ci eravamo formati con l’idea di fare hardcore e di suonare più veloce possibile, non seguivamo determinate regole che valgono per i musicisti. Ci illudevamo di poter fare quello che piaceva a noi e alla gente che ci poteva seguire. A un certo punto però iniziammo a non andare d’accordo su nulla, e soprattutto mancò quell’energia che permise al gruppo di andare avanti per tanto tempo. L’unico batterista che è stato veramente importante per la nostra storia è stato Fabrizio, al quale abbiamo dedicato “Il Giorno Del Sole” (libro pubblicato nel 2012, nel quale i Negazione si raccontano), anche perché effettivamente in quel momento siamo stati finalmente quattro nel gruppo, da lì c’è stata un’evoluzione, con Condannati A Morte e Lo Spirito Continua, dopo eravamo comunque in tre (Io, Tax e Zazzo) più un batterista che s’aggiungeva, ed eravamo un po’ stanchi di questo.
Parlando de Lo Spirito Continua: molti fan e buona parte della critica è d’accordo sul fatto che sia il vostro miglior disco, concordi anche tu? Io sottoscrivo.
Anche io.
Al di là di quel che è stato detto, ci sono motivi solo musicali o anche altri che te lo fanno preferire?
In parte quello che t’ho detto prima parlando di Fabrizio. È vero che è stato il nostro miglior disco, ma non è che non volessimo ripetere un risultato del genere. Abbiamo infatti chiamato 100% così proprio perchè volevamo che suonasse al 100% Negazione, ma Lo Spirito Continua era una delle cose che non si potevano prevedere. Avevamo scoperto l’Europa, avevamo scoperto l’Olanda e in particolar modo Amsterdam ,nella quale eravamo stati accolti come a casa nostra, trovando questo studio di registrazione dove avevamo già registrato Condannati A Morte nel vostro Quieto Vivere. Non dimentichiamoci che parliamo del periodo ’85/’86, dove in Italia ti guardavano strano se tenevi l’amplificatore alto nelle registrazioni o se chiedevi di registrare tutti insieme, cose che poi sono arrivate e che poi sono entrate a far parte della storia del rock. Era un momento in cui suonavamo insieme con un batterista da tanto tempo, ci mettevamo alla prova concerto dopo concerto, tour dopo tour. Fu tutto molto veloce, non ricodo tempi lunghi: iniziammo con Fabrizio nell’84, nell’inverno ’84/’85 partimmo per il primo tour europeo coi Declino (quattro date, nell’inverno più freddo della storia d’Europa, due in Olanda, una in Danimarca e un’altra non so dove). Suonammo malissimo, ma azzeccammo il concerto di Amsterdam, che era il primo per l’inaugurazione del nuovo spazio occupato dove poi registrammo Condannati A Morte e dove ci invintarono nuovamente a suonare. Ci trovammo meglio ad Amsterdam che a Torino, si creò quindi un’unione, un amalgama, un senso di essere veramente stretti come un pugno tutti e quattro, in cui l’amicizia si unì alla musica e alle cose che avevamo da dire. Era anche un periodo in cui, passata l’incazzatura iniziale, iniziammo a intravedere un possibile futuro, e anche nei testi iniziò ad emergere la differenza. Ci sono delle canzoni che non sono propriamente inni alla distruzione, si mischia l’italiano con l’inglese perché ormai suonavamo più all’estero che in Italia, continuiamo a suonare veloci, duri e pesanti, inizia a farsi sentire un incrocio metal (“Qualcosa Scompare” e “Un Amaro Sorriso”, che rimane il mio pezzo preferito dell’album). Ne Lo Spirito Continua si intrecciano delle parole che danno un senso di possibile futuro, un forte senso d’identità. Questa cosa qua poi funziona, il disco viene stampato da un’etichetta indipendente olandese (la Konkurrel, ndr) , viene stampato anche in america dalla Mordam Records. L’anno successivo saremmo dovuti andare in America in tour, ma per una serie di coincidenze la cosa è saltata.
Se non erro Zazzo in quel periodo aveva il servizio civile…
Esattamente. Io ero anche stato due mesi e mezzo in America, avevamo trovato una serie di contatti per organizzare questo tour, che avremmo dovuto fare un po’ con i Toxic Reasons, un po’ con i Corrosion Of Conformity, poi naufragò tutto per quel motivo. Poi arrivò Little Dreamer, Fabrizio se ne va e da lì tutto il resto della storia.
Voi però in America ci andate nel 1990 con i D.O.A, che ricordo hai di quel tour? Che impressione ti fecero gli Stati Uniti in quel momento storico? Altri gruppi c’erano stati già prima di voi: gli Indigesti nell’86, i CCM sempre nell’86…
I Raw Power c’erano già stati diverse volte.
Che effetto vi fece andarci dopo che tutti questi nomi già l’avevano fatto prima di voi?
Bisogna tener conto di una cosa, anche se non so se sia ancora così: la scena musicale negli Stati Uniti cambia molto più velocemente che in Europa, c’è un cambio generazionale più veloce. Se fai uscire un disco nell’86, ma vai in tour nel ’90, ricominci da zero. I D.O.A. furono umanamente, e non solo con noi, eccezionali.
Tutto iniziò quando ci chiamarono al New Music Seminar, un festival musicale che si teneva a New York. Dall’Italia avevano invitato i Black Box, un gruppo dance napoletano, e i Negazione, a dispetto degli organizzatori italiani che pensavano che avrebbero chiamato i Litfiba o Ligabue. Avevamo questo invito, avevamo parlato con i D.O.A. per far loro da gruppo spalla, decidemmo di farlo inframezzando coi costi. Ci saremmo mantenuti aprendo per loro. Eravamo andati in Olanda per registrare 100%, da lì partimmo per il tour in America, tornammo lì per mixare il disco e subito dopo in Italia col disco pronto. C’è anche però da dire che a quel punto non eravamo più rigidamente un gruppo hardcore, avevamo delle sonorità a tratti melodiche, a tratti più pesanti, e quindi non suonavamo davanti al nostro pubblico. Quell’anno c’era pure un tour che andava per la maggiore, cioè quello con Danzig, Soundgarden e Prong, sarebbe stato più azzeccato suonare per quel pubblico là.
È stata un’ esperienza dura per alcuni punti, bella per altri, suonammo 30 date in 35 giorni.
Da costa a costa?
No, facemmo solo North West e Mid West, verso la fine i D.O.A. tornarono a casa, noi suonammo da soli al CBGB e credo un’altra parte.
Tornando ancora più indietro nel tempo, che ricordi hai degli Antistato? I Negazione si son formati da due gruppi, Quinto Braccio e Antistato, tu che ricordo hai di questa tua primissima esperienza?
Gli Antistato furono un concerto e forse un mese di prove… era l’inizio!
Che ricordi hai di questi inizi?
I Quinto Braccio avevano già una storia, erano fortemente politicizzati ma erano già più interessanti perché c’era Tax alla chitarra, assieme a Orlando. Però avevano già intenzione di farla finita con quella storia, perché volevano fare un gruppo hardcore ispirato ai gruppi americani. Contattarono me e Zazzo per fare questo nuovo gruppo: l’idea era di evitare questi slogan che erano un po’ il limite di quella prima scena punk iniziale nata nei posti occupati. Primo concerto a Casale Monferrato in un casale o un cinema occupato, fu interrotto dai carabinieri ma noi suonammo per la prima volta. Da lì nacque tutto e Orlando mollò.
Il ricordo che ho non è molto bello: c’era un forte controllo della polizia nelle strade… carabinieri, c’era una grande avversione nei confronti di chi era un po’ fuori dalla norma. Già il modo in cui ti vestivi diventava un segno di trasgressione possibile, e rischiavi le botte. C’era un grande senso di aggregazione con tutte le persone che condividevano quella situazione, così noi Negazione iniziammo a desiderare di andarcene un po’ lontano, di prendere contatti anche con altre scene. Milano diventava un riferimento, si andava ai concerti al Virus, aprì il Victor Charlie a Pisa, iniziavano i primi concerti a Bologna, si andava ovunque si potesse, e in fondo in qualche modo c’era già la base dei Negazione: quattro amici che avevano in mente di andare ovunque ci fosse una realtà un po’ diversa.
Tu che ricordi hai della Torino di quel tempo? Io ci sono stato una sola volta due anni fa, ma mi sembrò molto diversa da come me l’aspettavo: credevo di trovare una città cupa, grigia, e invece era tutto il contrario. Mi hanno detto che è radicalmente cambiata dopo le Olimpiadi Invernali, ma ci devono essere stati anche altri fattori oltre a questo. Che differenza c’è tra questa Torino e quella di quegli anni là?
È una città completamente diversa. La Torino nella quale siamo cresciuti era una città profondamente segnata dalla fine degli anni ’70, dal movimento del ’77, dal terrorismo e dall’eroina. Era una città profondamente segnata nei suoi ritmi dalla fabbrica: anche chi non lavorava alla Fiat sentiva quel ritmo di vita. Per darti un’idea, uscire la sera durante la settimana era già di per sè considerato un qualcosa di trasgressivo, dopo una certa ora la città era diversa perchè c’erano i ritmi del lavoro. C’era quindi questa città grigia, buia, molto chiusa, in cui noi eravamo un po’ una scheggia impazzita di ribellione: attacchinaggi, piccoli atti di sabotaggio, organizzazione di concerti, piccole prove di occupazione di spazi. Perchè poi gli spazi non c’erano: come tante città amministrate dalla sinistra in quel periodo c’erano delle occasioni, dei centri d’incontro in cui noi ci trovavamo, ma le possibilità erano limitate, volevamo di più, la musica che noi piaceva non era accettata.
A questo punto mi viene da chiede come fossero le amministrazioni locali della sinistra del tempo. Sul Partito Comunista si dicono molte cose, molto contraddittorie. Mi ricordo ci fu quell’episodio storico a Bologna del boicottaggio del concerto dei Clash gratis alla Festa dell’Unità, organizzato dal PCI. In teoria queste amministrazioni avrebbero dovuto essere più aperte culturalmente, ma erano più indirizzate a un elettorato operaio. Com’era esattamente la situazione?
Intanto bisogna distinguere qual è il punto di vista di cui stiamo parlando: dal punto di vista generale, quel tipo di amministrazioni hanno segnato un’epoca a Torino, quella dei Punti Verdi, che anticipò le Estati Romane, quindi quel tipo di politica che passava attraverso la cultura. Nello stesso tempo quel tipo di politica aveva un’impronta egemone, non c’era possibilità di dissenso. Questo aveva già segnato il regolamento dei conti col movimento del ’77, semplicemente non era previsto un altro punto di vista, un’altra pretesa di gestione degli spazi che non fosse in qualche modo controllata, e i punk andavano contro tutto questo. Nello specifico a Bologna ci fu una contestazione legata ai Clash e al fatto che fossero sotto una major, a Torino invece ci fu un episodio che fu in qualche modo divertente e che segna un po’ il passaggio di quegli anni. Loro suonarono a gratis nello stadio del Parco Ruffini, vicino al Palasport, dopo un lungo periodo nel quale non c‘erano sono stati più concerti (non dimentichiamoci che a Torino ci fu la contestazione fuori dal Palasport per il concerto di Santana, in cui l’autonomia cercò di sfondare, perchè c’era il concetto dell’autoriduzione, seguì quindi una nottata di scontri). Nel 1980 o giù di lì tornano i concerti al Palasport: ci sono i Ramones, i Select, i Devo e ci sono i Clash. Io ancora non conoscevo i punk torinesi, e quella sera i compagni cercavano quelli coi giubotti neri pensando che fossero fascisti: era forse la prima occasione in cui i punk si vedevano in luoghi più aperti, non solo tra di loro, prendendo quindi anche delle botte. Il paradosso è che i Clash di lì a poco diventeranno il gruppo simbolo della sinistra che fino ad allora non aveva per niente capito il punk, c’è stato quindi un problema culturale di fondo. Teniamo anche conto del fatto che il punk agli inizi era conosciuto per la scena inglese, in Italia c’era quindi inizialmente una scena sostanzialmente modaiola, poi c’è una seconda ondata legata alla ribellione politica, ai posti occupati, ai circoli anarchici, l’hardcore poi supera tutto questo, rimanendo l’unica vera scena italiana riconosciuta negli anni all’estero. Perché era riconosciuto all’estero che c’era uno stile hardcore italiano (Kina, Negazione, Indigesti, CCM, Upset Noise, Raw Power ecc). Le recensioni parlavano di scena italiana, di stile italiano, una cosa che non era mai avvenuta se non con il beat, un po’ con l’hip hop…
Però dai, anche con il progressive…
Però qui attenzione! Parliamo di sonorità nuove, non una replica di qualcosa. A questa cosa qui nessuno era pronto. I giornali specializzati dicevano che il punk era già morto, ci si preparava a qualcosa che sarebbe arrivato dopo, nel frattempo l’hardcore contaminava e creava la rete, la rete prima della rete (in questo noi Negazione ci siamo stati dentro fino al midollo), creando così un affinità tra altra gente di Ottawa, di Helsinki, di Tokyo, in cui ognuno reinterpretava l’hardcore a suo modo, non c’era l’omologazione che è arrivata dopo. Tu ora ascolti 100 gruppi che suonano tutti come i NOFX ma che vengono da 100 posti diversi, che è stato un po’ l’effetto MTV…
Quando c’erano i Negazione in Italia, c’erano i Terveet Kädet in Finlandia, i B.G.K. In Olanda, gli Stupids in Inghilterra, ognuno suonava uno stile diverso, con forme particolari…
Riguardando a tutti i dischi che avete fatto, ci sono alcuni che trovi che potessero esser fatti meglio o sei soddisfatto del risultato finale? Ritornando al discorso di prima, quanto tempo ha impiegato la critica musicale per accorgersi di voi? Ricordo una vecchia intervista a Metal Hammer del 1988, quindi verso la fine degli anni ’80 qualcosa si era mosso o no?
Riguardo ai dischi, non penso che qualcosa potesse venire meglio o peggio, abbiamo avuto quello che ci meritavamo. Invece, quello che succede è che noi fino all’87 non veniamo minimamente cagati, se non marginalmente, dalla stampa italiana, perché appunto secondo loro il punk era morto e non poteva esistere ancora. Fino a quando veniamo chiamati in Inghilterra da John Peel per registrare una session, la cosa poi non va in porto ma andiamo comunque lì a suonare lo stesso, la stampa inglese quindi inizia a parlare di noi in diverse recensioni, di conseguenza al ritorno in Italia cambia qualcosa. Come spesso accadeva e forse accade anche oggi, c’è un approccio derivativo: se ne hanno parlato in Inghilterra allora se ne parla anche qua.
Diverso è stato il discorso nel mondo metal, che secondo me è stato a suo modo più sincero e corretto, perchè ha semplicemente valutato la nostra musica come una cosa interessante. C’era stato il crossover con il thrash metal, quindi scoprire un gruppo che aveva un seguito, che suonava, che poteva piacere a molti kids, ci ha portato ad avere molta attenzione da Metal Hammer, Metal Shock, H/M che ci ha messo in copertina. Si arrivò quindi a rompere quella consuetudine dell’apertura del Monsters Of Rock: c’era il gruppo italiano metal che pagava fisicamente per potersi esibire…
Quindi pagavano anche allora!
Pagavano per aprire, ma intanto avrebbero avuto in cambio i soldi della SIAE sul grande incasso. Questa cosa viene interrotta poiché veniamo invitati a suonare e pagati, quindi ti ritrovi un gruppo hardcore, con un grosso seguito tra i cosidetti metallari, perchè è un gruppo che ha girato tanto, ha un impatto molto fisico. Fino ad allora avevamo quasi più seguito in Europa che in Italia, lì invece si verifica il contrario.
Tornando a parlare di vostre canzoni, volevo chiederti quali fossero, tra quelli che avete scritto, i testi a cui sei più attaccato. A me ha sempre colpito molto “Lei Ha Bisogno Di Qualcuno Che La Guardi”, ma non ho mai ben capito esattamente Lei chi fosse, se fosse un sentimento, una condizione mentale o una persona.
Quello lo scrisse Zazzo. I miei preferiti sono “Il Giorno Del Sole”, “Lo Spirito Continua” e soprattutto “Un Amaro Sorriso”…
Un’ultima domanda finale: tu ora cosa ascolti? Suoni ancora? Se dovessi rimettere in piedi un gruppo, che genere suoneresti?
Io ora non suono più, se non occasionalmente. Dopo lo scioglimento dei Negazione ho suonato con i Fluxus, in cui ho fatto anche un disco,c’era anche Tax: eravamo due bassi, tre chitarre voce e batteria, una cosa molto noise. Fu una bella esperienza ma non mi divertivo più, non era più la stessa cosa. Non mi sono mai ritenuto un musicista, non ho mai scritto e composto qualcosa. Se ora dovessi fare musica la cosa è molto semplice, sarebbe vicino ai primi Queens Of The Stone Age. Sono un po’ i Motörhead per 40-50enni. Quel tipo di suono mi è sempre piaciuto molto, il primo disco l’ho consumato. Oggi ascolto un po’ di tutto: per anni, occupandomi di attualità per i giornali, andando in giro per il mondo, ho avuto il modo di staccarmi dal mondo delle uscite e di immergermi in quello che era ascoltato in posti strani del mondo come in Brasile, in Libano, l’Afghanistan. Mi piace molto un gruppo italiano, i Ministri, molto pop, ma che secondo me scrive testi molto belli. Poi un ascolto random di cose più diverse: l’hip hop, certo metal, se penso a cose vecchie giusto l’altro giorno ho fatto una full immersion di Slayer dopo la morte di Jeff Hannemann. Loro furono una grande passione musicale che ho condiviso con gli altri, un grande impatto di suono, devastante. Quel tipo di suono lo sento ancora, lo riconosco, mi piace e mi entusiasma, dopodiché ascolto veramente di tutto.
email print