Enrico Cherchi
Enrico aveva un forte accento romano quando lo conobbi. Il padre era sardo ma lavorava come direttore di albergo e aveva girato molto. Per un lungo periodo aveva vissuto a Roma per poi tornare nelle Marche, ad Appignano, paese di origine della mamma.
Il carattere bonario, sempre pronto allo scherzo, sempre disponibile, faceva di Enrico un punto fermo tra i compagni di scuola. La nostra lunga frequentazione ci dava la possibilità di capirci al volo, spesso anche senza parlare. Da lì nacque la nostra complicità che toccò l’apice nel periodo demenziale e nel suo famoso diario. Le battute venivano fuori a iosa, roba da scriverci puntate di Zelig. Ma a furia di fare i cretini quell’anno, il quarto, ce la vedemmo abbastanza brutta per ottenere la promozione a giugno, tanto che facemmo il voto alla Madonna di andare a Loreto a piedi se fossimo riusciti a scampare la bocciatura a settembre. La scampammo e ci toccò la scarpinata.
Decidemmo di partire da Valle Cascia di Montecassiano. Il padre di Enrico all’epoca dirigeva un famoso hotel del luogo così, i primi di settembre, prima che la scuola ricominciasse, andai per una settimana da lui, per ottemperare all’impegno con la Madonna e fare una settimana di baldoria. E fu baldoria davvero, soprattutto culinaria. Saccheggiamo la cucina dell’hotel ripetutamente tutte le notti. Ingrassai di un paio di chili, io che da adolescente potevo mangiare un elefante senza conseguenze.
Poi venne il giorno stabilito per il voto. La sveglia puntata alle sei del mattino tuonò nella camera che dividevamo e ci scagliò fuori dai letti nonostante avessimo mangiato e bevuto fino a poco prima. Partimmo da Valle Cascia che era un bel freschino ma la giornata prometteva fuoco e fiamme e così fu. Passammo collina collina in direzione Recanati. Tagliammo curve per campi. Saccheggiammo un paio di vigne cammin facendo, anche se l’uva era tutt’altro che matura. Arrivammo a Loreto che erano più o meno le due. Appena arrivati lungo la strada fuori le mura, quella che arriva fin sotto la statua di Papa Giovanni, il nostro olfatto fu attratto da un odore di lasagne che non si poteva ignorare. Entrammo nella trattoria che emanava l’effluvio e pasteggiamo per un’ora abbondante. Dopodichè Enrico prese il telefono a gettoni all’ingresso e chiamò Andrea, il fratello. Il pellegrinaggio era finito, poteva venirci a prendere. La Santa Casa non la vedemmo nemmeno da lontano. La sera stessa, per pareggiare il conto, andammo a vedere La Chiave di Tinto Brass fingendoci maggiorenni.
Ricordi sparsi di scuola
Augusto Ciampechini ha attraversato, nel periodo del liceo, quasi tutti gli stili e le mode dell’epoca, dallo yuppie al paninaro, ma credo che in fondo sia sempre stato un dandy. Impeccabile comunque nel vestire e sempre dai modi pacati ed eleganti. Per questo stonò e fece storia il calcio in culo che rifilò a don Giovanni Carnevale. Proprio quel Carnevale che vuole collocare Acquisgrana a San Claudio. Il mitico Carnevale che tutti abbiamo amato. Quel giorno eravamo a discorrere come facevamo ogni mattina prima della campanella della prima ora davanti al portone della scuola, lungo viale Don Bosco. Augusto dava le spalle al portone e, quatto quatto, ecco don Carnevale avvicinarsi che sembrava la Pantera Rosa. Lo vedemmo tutti meno che Augusto. Stentammo a trattenere le risate quando capimmo – perché ce lo fece capire – che aveva l’intenzione di fargli un “collino”, uno schiaffo bonario sul collo da dietro. Solo che il buon prete non modulò bene la forza e gli stampò una pacca sul collo sonora e, immagino, dolorosa. La reazione di Augusto fu immediata quanto istintiva. Mentre Carnevale si allontanava il nostro ruotò su se stesso, calibrò la gamba destra e sferrò un calcione al volo prendendo il professore in pieno e staccandolo un venti centimetri buoni da terra. Il silenzio calò sul viale. Volevamo ridere ma…un professore s’era appena preso un calcio in culo da uno studente. Cosa sarebbe accaduto? Accadde che don Carnavale si guadagnò ancora più affetto da noi studenti abbracciando Augusto e dicendo con la sua voce nasale: “giusto, giusto, me la sono cercata”.
Giuliano Ferranti era il mio compagno di banco in quinto. Giuliano Ferranti aveva una mamma premurosa che ogni mattina preparava splendidi panini per il figlio. I panini della mamma di Giuliano Ferranti erano STREPITOSI. Dal giorno in cui si ritrovò me come compagno di banco Giuliano Ferranti smise di mangiare i panini che la mamma gli preparava. Puntualmente ogni mattina gli rubavo il panino, lo dividevo in parti uguali e lo distribuivo a Carlo, Enrico, Mauro, Vincenzo Damiani, Alberto Branciari e Mario Cognigni. Il povero Giuliano doveva accontentarsi di comprare la terrificante pizza rossa del bar della scuola. Finchè un giorno si nascose il panino nelle mutande. Non potendo far nulla durante la lezione, al cambio dell’ora, in quel momento di sospensione di ogni forma di disciplina che passa tra l’uscita dell’insegnate dell’ora prima e l’arrivo di quello dell’ora dopo, io, Enrico, Mauro e Mario sollevammo il povero Giuliano prendendolo due per le gambe e due per le braccia. Mentre lui si divincolava e noi cercavamo di prendergli il panino estraendolo dai pantaloni arrivò don Marucci per la lezione di Geografia Astronomica. Nello stesso istante tutti e quattro lasciammo la presa. Giuliano precipitò nel vuoto, cadde rovinosamente e rumorosamente, tanto rumorosamente che don Marucci lo mandò fuori dalla porta. Almeno quel giorno riuscì a mangiare il suo panino, o quel che ne rimaneva, in santa pace.
Alberto Branciari scriveva i suoi sogni su un quadernetto. Tutte le mattine veniva a scuola molto prima dell’inizio delle lezioni e, approfittando della solitudine e del silenzio di quei momenti, trascriveva i suoi sogni della notte precedente prima che svanissero del tutto con la luce del giorno. Nessuno lesse mai quel quaderno, nemmeno Vincenzo Damiani, suo compagno di banco, che pure ci provò ma senza riuscirci.
Potrei proseguire con piccoli aneddoti all’infinito ma diventerebbero tediosi. Non me ne vogliano i miei amici della scuola che non ho citato: ho solo cercato dei momenti divertenti. E’ tempo di tornare a Montegranaro.