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Negrieri e predestinati

Creato il 13 gennaio 2016 da Francosenia
Negrieri e predestinati

" Il "lavoro" per la sua stessa natura è attività non-libera, disumana, asociale [...] "
- Karl Marx - "Sul libro di Friedrich List - Il sistema nazionale dell'economia politica" -

Tutti chiedono lavoro, lavoro, lavoro! Ci sono quelli che reclamano una protezione sociale di base che prenda in considerazione i bisogni, e ci sono quelli che esigono un reddito universale incondizionato. Ma nessuno si interroga sulle ragioni nascoste di queste assurde relazioni che, incuranti dell'essere umano, dominano oggi il mondo del lavoro. Ma non era un vecchio sogno dell'umanità, quello di avere la possibilità di lavorare di meno per poter finalmente consacrare il proprio tempo alla "vera vita"? Non si dovrebbe dedicare la maggior parte dei nostri sforzi ai compiti necessari alla sopravvivenza, ma piuttosto a tutto ciò che va oltre la semplice soddisfazione dei bisogni: il tempo libero, l'arte, il gioco, la filosofia, tutto ciò che rende gli uomini autenticamente umani. Oggi noi potremmo finalmente realizzare un tale sogno. La produttività del lavoro ha fatto un salto talmente formidabile che, tutti su questa Terra, con il minimo sforzo (paragonato a quello che era necessario nelle epoche precedenti), potremmo non mancare più di niente. Ma nonostante il fatto che diventi sempre più raro, il lavoro emerge in tutta la sua potenza totalitaria, la quale non tollera nessun'altra divinità che gli stia a fianco. Insistiamo a venerare il lavoro come si fa con un feticcio, come se fosse dotato di poteri magici.

1. Lavoro: l'attività propria agli schiavi
Per poter meglio comprendere il nostro rapporto servile nei confronti del lavoro, basta aprire un dizionario etimologico o un libro che ripercorra la storia del lavoro. La parola tedesca Arbeit deriva da un verbo germanico che significa "essere orfano, essere un bambino costretto ad un duro lavoro fisico"; e, fino alla fine del Medioevo, questa parola mantiene il senso di "prova dolorosa", di "calamità", di "compito indegno". In inglese, Lavoro ha come radice il latino Labor: "pena", "malessere", "sforzo". Il francese Travail e lo spagnolo Trabajo hanno origine dal latino Tripalium, un dispositivo utilizzato per torturare e punire gli schiavi o tutti quelli che non godevano della condizione di liberi. Parimenti, il russo Robota proviene dallo slavo Rob, cioè a dire "schiavo", "servo".
"L'etica del lavoro è una morale degli schiavi, ed il mondo moderno non ha alcun bisogno di schiavitù", ha detto lo scienziato e premio Nobel Bertrand Russell.
Fino all'Antichità, il concetto di lavoro era del tutto sconosciuto. La parola appare la prima volta per designare un'attività eteronoma, eseguita sotto la sorveglianza e sotto il comando altrui. Prima di allora esistevano dei termini per designare delle attività concrete, ma nessun termine astratto significava, come avviene con la parola "lavoro", un dispendio di energia umana il cui fine, il cui contenuto, è indifferente agli esecutori. Per esempio, laddove avevamo le corvée ( https://it.wikipedia.org/wiki/Corv%C3%A9e ), oggi abbiamo il lavoro salariato, ossia, qualsiasi attività esercitata in cambio di denaro.
Mentre le epoche precapitaliste consideravano il lavoro come un male necessario, con l'avvento della modernità ha inizio la sua trasfigurazione ideologica. Lo si innalza al rango di "costante antropologica", cioè a dire a caratteristica inerente all'essere umano. Con tutta la brutalità possibile ed immaginabile, si inculca negli uomini il principio e l'etica del lavoro. Ci sono voluti secoli per far sì che gli uomini rinunciassero al loro proprio ritmo di attività e venissero costretti a svolgere un compito quasi meccanico dentro le fabbriche.
Il racconto di questa trasformazione è interessante in quanto si può vedere la resistenza che capitola poco a poco. Alla prima generazione di operai viene inculcata l'importanza del tempo: nessuno, a quell'epoca, viveva "all'ora". Ed ecco che da allora in avanti gli uomini dovevano sottomettersi ad un'ingiunzione esterna, ad una cadenza che veniva loro dettata. Quella che è l'equivalenza attuale di tempo e denaro cominciava ad aver luogo. La seconda generazione lotta per la giornata lavorativa di dieci ore; gli uomini, a dire il vero, erano allora costretti a lavorare duramente per sedici ore di fila. La terza generazione ha finito per accettare le categorie dei padrini e reclamava solamente il pagamento delle ore supplementari. Nei paesi industrializzati, ora non è nemmeno più necessario esercitare la minima costrizione: tutto ciò è stato del tutto interiorizzato. E' diventato per gli uomini una "seconda natura". Il problema del "workahilism" e dello stress lavorativo ha acquisito un'ampiezza senza precedenti. Non si contano più i sessantenni, i cinquantenni, perfino i quarantenni che muoiono di infarto o di ictus - in poche parole, si uccidono di lavoro, come lamentano i loro cari.
Del tutto illuminante è il parallelo fra lo sviluppo del capitalismo e quello delle armi da fuoco che mostra assai bene in quale maniera funesta si siano sommati i loro rispettivi potenziali di distruzione. Dal momento in cui si inventa la polvere da sparo e si costituiscono gli eserciti permanenti, la manutenzione di questi ultimi necessita che venga elevata drasticamente la pressione fiscale. Cosa che a sua volta innesca un aumento del carico di lavoro. Al fine di organizzare gli eserciti e le nuove tecnologie di distruzione, la forma denaro e la forma merce si dimostrano più adatti rispetto alle tradizionali obbligazione feudali. Ancora oggi, i quattro quinti della ricerca scientifica e tecnica sono al servizio della guerra. La più parte dei nostri prodotti high-tech sono in realtà dei sottoprodotti della tecnologia militare.
La macchina e la catena di montaggio non sono state inventate per alleviare il lavoro degli uomini e nemmeno per migliorare le nostre relazioni con la natura, bensì per trasformare più rapidamente il denaro in ancor più denaro. Da allora, ogni attività umana viene apprezzata in funzione del valore economico che crea. L'uomo non fabbrica i prodotti che avrebbe senso fabbricare (ad esempio, un cibo non inquinato o dei beni d'uso durevoli ed eco-compatibili), ma innanzitutto fabbrica i prodotti più suscettibili di guadagnare soldi. Quindi, sotto molti aspetti il capitalismo ha più a che vedere con la morte di quanto abbia a che vedere con la vita.
Immanuel Wallerstein ha notato, a proposito della genesi del capitalismo, che la maggior parte delle persone oggi lavorano "incontestabilmente"di più, un assai più grande numero d'ore al giorno, per anno, o per quanto attiene alla durata di una vita". E ciò malgradi, "la maggioranza della popolazione mondiale si trova oggettivamente e soggettivamente più povera dal punto di vista materiale di quanto lo fosse nei sistemi precedenti, ma io penso che si trovano anche in condizioni politiche peggiori rispetto a prima".

2. La logica di morte della merce è divenuta totalitaria
E' solo la volontà politica quella che manca, come si è più volte affermato ad alta voce? Quella che potrebbe effettivamente risolvere il problema della disoccupazione e l'insieme di tutti i problemi della società? O è piuttosto il reddito minimo a costituire la soluzione? Un reddito universale (incondizionato e sufficientemente elevato) può certamente rappresentare un sollievo vero e proprio nel capitalismo. Può contribuire a spezzare per sempre il mito della piena occupazione. (In Austria, del resto, una quasi piena occupazione è stata raggiunta soltanto per un breve periodo di tempo e solamente perché una maggioranza di donne è rimasta a casa.) Il reddito universale può garantire che le persone non siano più oggetto di persecuzione da parte dell'Agenzia per l'impiego e che si smetta di vedere nel lavoro salariato la propria ragion d'essere. Ma tutto questo non cambierà niente per quanto riguarda la logica insensata del capitale.
Tutti vogliono rendere il capitalismo più giusto, più umano e più ecologico, ma nessuno lo mette in discussione! Nessuno attacca quello che ne costituisce l'essenza: la logica mortifera della merce. Nel capitalismo, la regola d'oro consiste nel realizzare profitto, cioè a dire moltiplicare il denaro, creare del (plus)valore. Ciò necessita di crescita e concorrenza illimitata. Il lavoro non serve affatto - e servirà sempre ancora meno - a produrre o a realizzare ciò che è utile e necessario al genere umano; il solo ed unico criterio, è quello che si venda. Il fatto che i prodotti ed i modi produzione siano o meno a beneficio dell'uomo e della natura, questo non è il problema.
La legge immanente del capitalismo posta a trasformare in merce tutti gli ambiti della vita: chi avrebbe mai ritenuto possibile che le poste, le ferrovie, le scuole, gli ospedali e perfino un numero sempre più crescente di aree interpersonali, dovessero un giorno funzionare seguendo gli implacabili criteri economici? Una tale evoluzione quindi non è dovuta alla mancanza di volontà politica, bensì alla natura stessa del capitalismo.
Come si è arrivati a questo? La ricchezza, nella società capitalistica moderna, possiede sempre due aspetti: è allo stesso tempo sia ricchezza sensibile-materiale (cibo, case, vestiti, ecc.) che risorsa pecuniaria, bene, somma di denaro. Tuttavia la ricchezza sensibile-materiale acquisisce il diritto all'esistenza solo per mezzo della sua forma pecuniaria astratta, in altre parole, allorché diventa merce. La società capitalista non avrebbe assolutamente alcuna difficoltà a fornire a tutti beni a sufficienza; il solo problema, è che questi beni si trasformano incessantemente in denaro, in merce, in valore (da qui il termine di "critica del valore"). Di conseguenza, bisogna che si valorizzino.
Tocchiamo qui il cuore del problema: la crisi generale del finanziamento non è assolutamente l'opera di leader malvagi; essa procede logicamente dal disaccoppiamento fra lavoro e produzione di ricchezza. Ciò significa che tutti gli esseri umani su questa terra in teoria potrebbero vedere i loro problemi soddisfatti senza che sia quindi necessario lavorare quaranta ore la settimana. E' vero che, lavorando meno, le persone vengono pagate meno bene, perfino non pagate per niente - ma non è forse quello che in ogni caso sta già succedendo un po' dappertutto? Questo dimostra che il denaro, o piuttosto l'obbligo ad averne, non è più un ostacolo fra l'uomo e la soddisfazione dei suoi bisogni! Se così fosse smetterebbe di coniugare ciò che è buono per l'uomo e ciò che è buono per l'economia! Ecco perché si cerca continuamente di persuaderci del contrario.
La logica mortifera del mondo della merce, in virtù della quale ogni cosa, prima di poter essere utilizzata, deve necessariamente essere comprata in quanto merce - una tale logica è divenuta totalitaria. Il valore non è una cosa grossolana rilevante all'interno della sfera economica, bensì una forma sociale al cento per cento: sia forma del soggetto che forma di pensare. Chiedere che la politica ridiventi più responsabile, denota una scarsa comprensione della natura del capitalismo. In che cosa la politica ci potrebbe aiutare oggi, essa che, con la democrazia, è cresciuta insieme al sistema capitalista, mano nella mano? Essi sono inesorabilmente incatenati, l'una all'altro. Democrazia, economia di mercato, Stato di diritto (e diritti dell'Uomo): semplici appendici del capitalismo. Paul Valery ha scritto: "La politica è l'arte di impedire alle persone di interferire con quello che riguarda loro".
La moderna coscienza democratica emana un pensiero mercantile che non riconosce nemmeno più i suoi propri limiti e per la quale, di conseguenza, la minima soluzione ai problemi sociali passa necessariamente per il lavoro e per il denaro, in un contesto di crescita economica. Per la maggior parte delle persone, una produzione autodeterminata ed una condivisione di beni senza scambio né coercizione sono letteralmente impensabili. Da dove proviene questo panico allorché si tratta di considerare il superamento del sistema capitalista e della sua logica di morte?
L'esigenza della solidarietà e della compassione, oggi osa a malapena esprimersi: essa attenta alla supremazia dell'attuale forma di lavoro e di economia. Nemmeno con un reddito universale spezzeremo la logica mortifera della merce, dal momento che semplicemente non siamo in grado di stampare le banconote da distribuire. Noi otteniamo i soldi solo alle condizioni dell'economia capitalista. Ora, queste condizioni si riassumono da tempo in una spirale discendente che niente e nessuno può fermare. Il capitalismo non conosce altro che il fine in sé irrazionale e che consiste nel trasformare denaro in sempre più denaro fino alla fine dei tempi. All'interno di questo sistema, non è possibile alcuna prospettiva emancipatrice. Esso ha incontrato i suoi propri limiti.

3- Nella crisi, la formazione diventa "un obiettivo surrogato facilmente disponibile"
La formazione iniziale e continua è davvero un fattore essenziale per aiutare i disoccupati a rientrare nel mondo del lavoro? Richiedere più personale per l'Agenzia per l'impiego e più corsi di formazione per i disoccupati, come fa la Camera dei Lavoratori [N.d.T.: Arbeiterkammer, organismo pubblico su scala regionale e nazionale per la difesa degli interessi dei lavoratori austriaci. L'iscrizione, diversamente da quella sindacale, è automatica.] e come tutti continuano a ripetere, costituisce soltanto una grossolana negazione della realtà. In quanto, in primo luogo, a numerosi disoccupati - soprattutto quelli che escono dall'Università - viene negata l'assunzione in quanto sovraqualificati; e in secondo luogo, la formazione continua che potere ha di creare nuovi posti di lavoro, al di fuori di quelli degli insegnanti dei corsi di formazione? In realtà, si cerca semplicemente di sgonfiare le statistiche contando soltanto le persone che frequentano le aule dei corsi (il numero reale di persone attive disoccupare, del resto, è più o meno il doppio rispetto a quello fornito dalle statistiche).
Dietro il famoso slogan dello "apprendimento per tutta la vita", c'è sempre meno il fatto per cui ciascuno vorrebbe apprendere e sempre più il puro e semplice obbligo. Nel considerare questa mania per una formazione richiesta da tutte le parti a partire dalla tradizione illuminista e dall'emancipazione, Karlheinz Geissler e Frank Michael Orthey, professori di Scienza dell'Educazione a Monaco, invitano a rimettere in discussione il concetto di "formazione", percepito sistematicamente come qualcosa di positivo. Nel n°116 della rivista Schulheft, intitolato: "Pedagogizzazione: come apprendere rende le persone sempre più stupide" (2004) [ http://www.schulheft.at/fileadmin/1PDF/schulheft-116.pdf ], considerano come, in tempi di crisi, la formazione abbia un fascino particolare. Essa diventa un "obiettivo surrogato facilmente disponibile". Man mano che diminuiscono le possibilità di successo - ad esempio, trovare un impiego - la formazione si afferma sempre più come un fine in sé. Certo, accade regolarmente che delle persone siano "salvate" da uno stage, allo stesso modo in cui altri sfuggono alla rovina sicura vincendo alla lotteria. Ciò basta perché tutti "credano" alla formazione ed al gioco d'azzardo. Ma non è così che si risolvono i problemi sociali, così non si fa altro che addossare all'individuo stesso la responsabilità della sua situazione, felice o infelice che sia. La formazione, sottolinea Orthey, costituisce una "sorta di scappatoia che dura per tutta la vita". Il concetto secondo cui permetterebbe di influire sul proprio avvenire al fine di migliorare ci fa perdere di vista la realtà e i suoi problemi. Ci si focalizza su quello che ci manca: se, malgrado la formazione, il successo non arriva, ciò significa che non abbiamo imparato molto, o che abbiamo imparato quello che non ci serve. Si ritorna al punto di partenza!
Geissler, da parte sua, analizza giustamente la formazione per gli adulti, ed in particolare l'istituzione dell'Università popolare, che rappresenta ormai una "disposizione dello spazio interno", "una guida che permette di orientarsi in una diversità di stili di vita e di valori" che spesso confonde le persone. L'Università popolare non fa chiarezza sul mondo reale ma, al contrario, crea una realtà che si nutre di apparenza. Infatti, nella società di mercato (a maggior ragione se questa società è capitalista), le promesse di felicità non vengono mantenute: promettere non porta a niente. Per Geissler, la formazione per gli adulti è, insieme alla televisione, "la più grande produttrice di illusioni della nostra repubblica".
L'aspetto che tocca di sfuggita: "Chissà, forse impareremo perché siamo incapaci di smettere di lavorare", tocca un punto nevralgico del terrorismo della formazione. Infatti, quello che spinge l'esercito sempre più numeroso dei disoccupati verso questi corsi e questa riqualificazione, non è solo la speranza di ottenere un posto di lavoro; tutta la formazione, sia quella iniziale che quella permanente, serve inoltre troppo spesso a garantire semplicemente il loro diritto all'esistenza. Un diritto di cui i disoccupati, non essendo più membri a pieno titolo della società, si vedono deprivati. Per cui, nella formazione continua reclamata con clamore, c'è innanzitutto la pura e semplice utilità dal punto di vista della folle logica del mondo della merce: mi fa apprendere quello che si suppone mi pori alla riuscita professionale; in secondo luogo, l'offerta abbondante e costosa di formazione serve a stimolare l'economia; e in terzo luogo, essa costituisce per i disoccupati una "occupazione", il proseguimento con altri mezzi dell'assurdo giro nel mulino della disciplina del lavoro salariato. Geissler lo esprime in maniera che più chiara non si può: "L'apprendimento per tutta la vita è un modo per eludere la vita."

4. Braccialetti elettronici per i disoccupati: delirante, ma logico.
Va presa sul serio, l'uscita del ministro della Giustizia dell'Assia, Christean Wagner (N.d.T.: CDU - Unione cristiano-democratica, principale partito della destra tedesca diretto dalla cancelliera Angela Merkel) che reclama che venga limitata la libertà dei disoccupati? Alla fine dell'aprile del 2005, infatti, ha espresso l'idea per cui - a partire dal generoso pretesto di "aiutare coloro che si aiutano da soli" - vanno dotati di un braccialetto elettronico sia i drogati in cura che i disoccupati di lunga durata.
Le persone che hanno un lavoro e quelle che non ce l'hanno devono perciò obbedire a delle regole diametralmente opposte. Quando si tratta di sfruttare le opportunità di lavoro, l'ideale perseguito è quello della mobilità totale; le agenzie per l'impiego sono sempre più in aumento. Ma, al contrario, si impedisce ai disoccupati di lasciare il loro luogo di residenza; o piuttosto, prendendo certe "misure", come i corsi prescritti dalle agenzie per il lavoro, lo Stato li costringe a vivere in un determinato luogo per una parte della loro esistenza. Se vogliono continuare a percepire l'indennità di disoccupazione o l'aiuto di emergenza, i disoccupati austriaci - contrariamente ai loro omologhi tedeschi - non hanno nemmeno la possibilità di andare in viaggio per tre settimane l'anno. Inoltre, il semplice fatto di allontanarsi dal proprio domicilio per recarsi in un'altra regione diventa sempre più rischioso: in qualsiasi momento può arrivare una convocazione per posta, ed al primo appuntamento mancato ci si vede annullare l'indennità per sei settimane.
Chi è interessato alla storia, può osservare una forma più lieve di tale scenario nel corso del 19° secolo. Anche in quell'epoca ci sono stati dei grandi movimenti migratori. La popolazione delle campagne affluiva, in cerca di occupazione, verso i grandi centri industriali nascenti. Ma in caso di recessione, quando le persone si trovavano ad essere a carico della pubblica assistenza, si faceva in modo che ritornassero al loro villaggio natale. Solo tornando là, potevano pretendere un aiuto. Un tale parallelo storico tuttavia non è il solo che salti agli occhi: esiste anche un parallelo strettamente contemporaneo. Le restrizioni alla libera circolazione dei disoccupati, che in parte sono già state messe in atto e che per il resto sono già all'orizzonte, hanno come modello il trattamento che viene riservato ai migranti clandestini e agli altri richiedenti asilo, la cui libertà di movimento è di già oggi molto limitata (ad esempio, vengono posti in stato di detenzione anche quando non hanno commesso alcun reato). E' abbastanza logico che si voglia applicare ai disoccupati il medesimo trattamento che viene riservato ai richiedenti asilo, nella misura in cui lo status di lavoratore e quello di soggetto giuridico appaiono come le due facce della forma borghese-merce del soggetto. Quel che voglio dire è che, sotto il capitalismo, per contare pienamente in quanto soggetto di diritto, bisogna avere sia un lavoro che uno status giuridico garantito. Mentre richiedenti asilo e richiedenti lavoro, questi non-soggetti, vengono messi in stato di arresto, dal soggetto ci si aspetta, da destra a sinistra, che egli concorra per il suo lavoro.
Finché la disoccupazione non era ancora un fenomeno di massa, anche il disoccupato veniva riconosciuto come un soggetto honoris causa. Ma da qualche anno tale status è diventato sempre più fragile, ed in particolare i disoccupati di lunga durata si vedono sempre più negare completamente lo status di soggetto. Mentre che, a parte i detenuti e i bambini scolarizzati, tutti sono liberi di andare dove vogliono, i disoccupati vengono ostacolati nei loro spostamenti. Nella logica dell'amministrazione capitalista dei non-soggetti, l'idea di equipaggiare anche i disoccupati di lunga durata con dei braccialetti elettronici costituisce quindi una proposta del tutto sensata. La "pedagogizzazione" crescente del trattamento dei richiedenti un posto di lavoro procede, allo stesso modo, a partire dal loro status di soggetti di seconda classe.

5. Il pensiero positivo: dal dogma New Age al lubrificante autoprescritto [*]
In un mondo che ogni giorno muore un po' di più a causa delle sue contraddizioni e dove da tempo sono solo le apparenze che innanzitutto contano, il pensiero positivo costituisce il mezzo migliore di adattamento. Se una volta si dovevano obbligare con la forza gli schiavi a lavorare, ai nostri giorni ciascuno è il suo proprio negriero - e le nerbate piovono positivamente. Nel corso del primo quarto di secolo, il movimento New Age lo ha ripetuto in tutte le maniere: sogniamo, al prezzo di inverosimili contorsioni mentali, che le nostre condizioni inumane siano belle e buone. Adesso è arrivato il momento che questa bizzarria intellettuale faccia parte del patrimonio collettivo. Feticci e formule magiche ce lo dicono: pensiamo positivamente, yin e yang, olismo e spiritualità, anche quando l'economia gode ottima salute. Ma questa filosofia non ha assolutamente niente a che vedere con delle cose realmente positive quali il bello, il gradevole, l'umano. Al contrario, essa serve a farci percepire la follia sociale, in altre parole il negativo, come una giornata rassicurante! Insomma, dobbiamo davvero intendere la parola "positivo" nel senso di affermazione, di consenso.
Un tempo, quando questo serviva ancora a qualcosa, i disoccupati seguivano corsi di formazione o attuavano una riqualificazione. Oggi, fa ridere che la forza lavoro abbia da offrire delle competenze reali e sfruttabili; si tratta solamente di autosuggestione e di tecniche per cercare di vendersi sul mercato. Nell'epoca della disoccupazione di massa, l'amministrazione si è ridotta ad esortare i disoccupati, come si esortano le proprie truppe nel corso di una guerra già perduta. Chi può ancora credere che ci sarà di nuovo un giorno in cui ci sarà lavoro per tutti?
Il pensiero positivo - o "visualizzazione", come insiste a voler essere chiamato - ama soprattutto giustificarsi. Ad esempio, rivendicando il suo impatto benefico sulla salute. Tuttavia, nel suo intervento nel mondo del lavoro e sulle questioni relative alla disoccupazione, questa categoria di psicoterapeuti non ha altra funzione se non quella di convertire le assurdità sociali più manifeste in un problema privato, dove si lascia ad ogni individuo la responsabilità di doversela sbrigare. L'idea per cui, sul mercato del lavoro, le condizioni sociali non avrebbero alcuna importanza e che solamente la pura volontà farebbe la differenza - quest'idea ormai svolge ufficialmente il ruolo di incoraggiamento. Ma il punto essenziale di questo messaggio è il seguente: il fallimento prova che quello che fallisce non merita di aver successo. Così, dietro il pensiero positivo quello che in realtà vediamo riapparire è il pensiero calvinista della predestinazione.
Il pensiero positivo riporta l'umanità indietro, allo stadio del pensiero magico. Psicologicamente parlando, equivale alla pratica imposta dalla regressione e dai fantasmi infantili di onnipotenza. Un sintomo clinico viene elevato al rango di obiettivo della socializzazione.

- Maria Wölflingseder - Saggio pubblicato, nel marzo 2006, nell'antologia "Land der Hämmer - Zukunftreich?", dal gruppo " unicum:mensch", riunito intorno a Clemens Sedmak dell'Università di Salisburgo (Austria) -

NOTA

[*] : l'autrice scrive altrove che "se all'inizio il pensiero positivo è stato un'ideologema esoterico, ora svolge soltanto il ruolo di lubrificante autoprescritto ai fini dell'adattamento incondizionato all'assurda ed irrazionale situazione dominante"

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme


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