La Recherche me la portava mia madre dalla biblioteca della scuola, un volume ogni due mesi circa, ho impiegato più di un anno per leggerla tutta. Avevo diciannove anni quando iniziai. A quel tempo ero giovane e temerario e senza soggezioni, e per portare a compimento quella che mi sembrava un’impresa titanica stabilii un metodo di lettura: venti pagine al giorno, dopo pranzo, possibilmente sdraiandomi sul letto e tenendo uno spiraglio di finestra aperta per sentire i profumi del giardino, anche d’inverno. Quello fu il mio modo di pianificare l’impresa, anche se – me ne rendo conto – leggere quattromila pagine con lo spirito di chi progetta di raggiungere il polo nord alla guida di una slitta trainata da cani, non è il massimo. Terminate le mie venti pagine pomeridiane spesso capitava che mi addormentassi. Ciò non era dovuto al peso della lettura, ma semmai era un modo ulteriore che la mia immaginazione escogitava per penetrare la scrittura di Proust. Le mie erano sonnolenze rapide, una diretta conseguenza del silenzio trasparente con cui lasciavo scorrere i miei occhi dentro le pagine, o un modo per contenere e spegnere la febbre che mi assaliva. Senza quel sonno non credo che avrei partecipato con uguale intensità al tè della zia Léonie, ai giochi delle fanciulle in fiore, ai ricevimenti dalla duchessa di Guermantes e alle visite nell’atelier di Elstir. Quell’anno mi capitò di fare un viaggio in Francia, feci in modo che mi scattassero una foto accanto alla tomba di Proust nel cimitero del Père-Lachaise. Solo quel giorno, davanti all’obiettivo della macchina fotografico e sotto il principio di una piccola pioggia d’agosto che bagnava Parigi, compresi fino in fondo il senso di quella frase che avevo letto nel Tempo ritrovato un minuto prima di partire: “Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore”.