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Neil Young and the Bluenote Café (1988)

Creato il 15 novembre 2015 da Zambo
Neil Young and the Bluenote Café (1988)
Gli anni ottanta non sono stati una passeggiata per Neil Young. Con l'arrivo de punk se l'era cavata bene; a differenza dei suoi sodali che se ne erano trovati spiazzati e pensionati, Neil se n'era uscito con un Rust Never Sleep che del punk conteneva addirittura un inno, Hey Hey, My My (Into the Black), che lo avrebbe laureato padrino della nuova ondata - e sarebbe successo ancora due decenni dopo con il grunge. Ma subito dopo le cose si erano messe di traverso. Si era sposato con Pegi, ma il figlio che ebbe con lei, Ben, aveva problemi cerebrali, come li aveva avuti il primo, Zeke. Il mondo gli cadeva addosso. Re-ac-tor fu un album di rock duro. Dovette cambiare casa discografica, dalla originale Reprise dei suoi capolavori alla neonata Geffen, dell'ex fondatore della Asylum.
Trans, nel 1982, un disco a dir poco strano, postmoderno, elettronico, con la voce di Neil filtrata dal vocoder. Mentre tutti gli davano addosso, capitava che io, nei miei personali percorsi musicali, proprio con quel disco mi riavvicinassi fortemente al canadese; forse perché la mia sensibilità musicale ha sempre contemplato l'avanguardia (per esempio di King Crimson o Can), forse perché quell'album comprende in ogni caso alcune grandi canzoni, come Little Thing Called Love, Hold on to Your Love, Sample and Hold, Like An Inca. O forse semplicemente perché quel vinile mi capitò in mano nel momento giusto; sta di fatto che lo infilai sulle pagine del Mucchio Selvaggio nella lista dei miei dischi preferiti dell'anno, cosa che fu letta come una provocazione - ma non la era. Tanto che la mia simpatia rimase immutata anche  per il brevissimo Everybody's Rockin', che forse recensii. Nel 1985 Old Ways era un nuovo giro di valzer: dall'elettronica al rock'n'roll, nel giro di tre dischi Neil si era catapultato nell'Old Time Music. Simpatico, ma obiettivamente l'unico pezzo buono era l'omonimo. Fan e critica lo stavano abbandonando, ed io stesso non acquistai né Landing On Water, né Life. Ma le radici di Neil sono profonde e robuste: dopo aver toccato il fondo stava semplicemente prendendo la rincorsa per il secondo picco creativo della sua vita, che si aprì nel 1988, con la casa discografica originale, con This Note's For You. Un disco totalmente inconsueto, con una big band di fiati battezzata Bluenote Café, pescava in un mare mai navigato prima dal cantautore: quello del rhythm & blues e del jazz. Amai quel disco, a cui sarebbero seguite le sue cose migliori: Eldorado, Freedom, Ragged Glory, Arc. Glory days!
È dunque con piacere assoluto che accolgo questo Bluenote Café, testimonianza per gli archivi di Neil Young dei suoi concerti americani di quell'anno, da New York a San Francisco, con la big band. Ed è una sorpresa scoprire quei concerti persino migliori di quanto li avessi potuto immaginare. In uno slogan: Neil Young incontra i Blues Brothers. Il suono è quello, dei fratelli Blues e della Stax di Memphis. Il feeling il solito, grande, epico, poetico Neil Young. Ci sono i pezzi del disco, esaltati dall'atmosfera live, accompagnati da una pioggia inediti, che sto imparando a gustare.
Ma soprattutto c'è un momento memorabile, uno zenit assoluto: la chiusura è affidata ad una interminabile, infinita versione soul di venti minuti di Tonight's The Night, il più classico dei classici.
E non esiste che si possa non ascoltarla. Sappiatelo.
Neil Young and the Bluenote Café (1988)

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