A Bari c’è un sentiero scavato tra l’erba alta, seccata dal sole e calpestata ogni giorno da decine di storie agghiaccianti. Storie che nessuno ha mai ascoltato. Storie raccontate in lingue a noi sconosciute e che parlano di morte, sofferenza, ma soprattutto di tanta speranza.
Sono le storie che i migranti del Centro accoglienza e richiedenti asilo di Bari (Cara), vi racconterebbero volentieri se solo aveste la pazienza di andarli ad ascoltare. Noi ci abbiamo voluto provare, nonostante il nostro inglese e il nostro francese non siano proprio eccellenti. Quello che vi riporteremo, però, ce lo siamo fatti ripetere più volte per essere sicuri di non aver capito male.
Un pomeriggio in cui il sole sembrava volerci far credere ad ogni costo di essere arrivati in Africa, decidiamo di andare anche noi su quel sentiero che conduce alla recinzione posteriore del Cara di Bari-Palese, una recinzione squarciata e rattoppata di tanto in tanto. E’ da questo pertugio verso la libertà che vengono fuori ogni giorno quelli che la stampa ama chiamare gli “ospiti” del Cara. Sono ragazzi provenienti da ogni parte dell’Africa, ma ci sono anche molti Afghani per la maggior riconosciuti come “casi Dublino”, cioè coloro che hanno fatto richiesta di asilo in altri Stati e ora sono in attesa, anche da due anni, di sapere dall’Unione europea qual è lo Stato competente a valutare il loro caso.
Non sono ancora le tre di pomeriggio e il caldo sta già facendo bollire le nostre teste. Comprendiamo facilmente l’aridità del terreno e l’erbaccia avvizzita intorno a noi, e ci stupiamo alla vista di un rigoglioso roseto proprio di fronte al Cara, dall’altra parte dei binari delle ferrovie dello Stato. Le stesse rotaie che vediamo pericolosamente attraversare dai ragazzi del Cara che ci vengono incontro.
Che ci fate qui? Chiedono subito. Siamo venuti a parlare con voi, rispondiamo. Stupiti e anche un po’ infastiditi, si guardano fra loro come a trovare il reciproco consenso per poterci parlare. Sono in tre, ma uno di loro, il più diffidente, resta in disparte mentre gli altri due ci dicono, indicando il Cara: “Qui mafia”.
Immaginiamo la loro rabbia, a molti di loro dopo un anno è stata respinta la richiesta di asilo, ed è comprensibile che inveiscano contro le istituzioni. Allora cerchiamo di capire quali siano le condizioni di vita che, loro malgrado, devono sopportare nel Cara.
“Non ce la facciamo più – spiegano – qui c’è gente che viene da Paesi dove c’è la guerra a cui partecipa anche l’Italia, dove sono perseguitati, ma dopo due anni a Bari non riescono a sapere se avranno l’asilo politico che spetta loro di diritto”. “I membri della commissione ministeriale che esamina le nostre proposte – aggiungono – non ci ascoltano neppure, e quando parliamo si distraggono, fumano, parlano al cellulare: di noi non gliene importa nulla. Allora – proseguono – di notte molti di noi nel Cara si tagliano, si fanno grossi tagli sul proprio corpo per dimostrare la loro disperazione. E la polizia, per farli smettere, li picchia selvaggiamente coi manganelli”.
A questo punto smettiamo di prendere appunti sul nostro taccuino e gli chiediamo di ripetere: “Avete capito bene – dicono mentre si avvicina il terzo ragazzo che era con loro e altri ci raggiungono attraversando i binari – molti di noi la notte si tagliano per disperazione”. Alle parole seguono i gesti e con il pollice teso verso l’esterno e il pugno chiuso, si passano la mano dall’alto al basso del torace, in diagonale, simulando un oggetto tagliente che incide il loro corpo. Poi fanno lo stesso sulle braccia e sulle loro gambe.
Ma la polizia cosa fa, chiediamo nuovamente. “Viene nelle stanze e ci picchia coi manganelli. E’ anche capitato che qualcuno abbia filmato il nostro viso durante una manifestazione di protesta – ricordano con terrore – e loro, dopo averci visto in tv, sono venuti a picchiarci di notte”.
Quest’ultima dichiarazione, oltre a lasciarci senza parole, ci fa riflettere ancora. E ci riporta all’ultima manifestazione di protesta dei migranti che occuparono proprio quei binari che ora sono di fronte a noi: in quella circostanza erano davvero in molti a coprirsi il viso. Anche una operatrice dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati), suggeriva ripetutamente ai giornalisti con le telecamere di non riprendere i volti, spiegando però che si trattava di motivi legati alla burocrazia e alla richiesta di asilo.
Mentre continuiamo a parlare, intorno a noi ci sono ormai una decina di migranti. E da tutti arriva la stessa richiesta: “Fate qualcosa per aiutarci, per favore”.
Non sappiamo se quanto ci hanno raccontato sia del tutto vero. Se il fatto che ci abbiamo chiesto di non fotografarli e di non citare neppure un nome sia dovuto davvero alla paura di essere picchiati.
Quel che ci chiediamo, però, è come mai ai giornalisti venga vietato l’ingresso in questi luoghi di “accoglienza”, così come in quelli di “detenzione”: i Cie, centri di identificazione ed espulsione. Noi in passato ci abbiamo provato a intervistare gli “ospiti” del Cara all’interno della struttra: volevamo raccogliere le loro storie in una pubblicazione. Ma chi avrebbe potuto darci questa possibilità ci rispose, ahinoi: “Io cosa ci guadagno?”.
Inutilmente cercammo di spiegargli che il vero guadagno, per tutti, sarebbe stato proprio quello di far conoscere meglio fuori dal Cara, a chi ha ancora mille e ingiustificate paure, chi sono e cosa vogliono davvero i suoi “ospiti”.
Purtroppo ci resta una insopportabile sensazione di impotenza e la paura che, se quanto ci hanno raccontato fosse vero, anche pubblicando questo articolo potremmo peggiorare le loro condizioni di vita all’interno del Centro di accoglienza.
Quello che però proprio non possiamo fare, è tacere. E ci auguriamo che chiunque sappia qualcosa, faccia altrettanto.