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Nel cuore nero (1)

Creato il 21 giugno 2011 da Viadellebelledonne

Ho la bellezza giovane ed è felice. Scivolo sul tetto dei venti scivolo sul tetto dei mari sono diventata sentimentale non conosco più il conduttore non muovo più seta sugli specchi sono malata fiori e sassi amo la più cinese delle nuvole amo il più nudo degli scarti d’uccello sono vecchia ma QUI sono bella e l’ombra che scende dalle finestre profonde risparmia ogni sera il cuore nero dei miei occhi.

Mi preparo. Avrò voglia di uscire. Aspetto Maddalena.

Patti Smith. Peace and noise. Alto volume.

La matita nera tra il pollice e l’indice a fare un disegno sfumato dell’occhio destro, sotto. Deve corrispondere con il piano delle ciglia inferiori, dare la sensazione che siano molte. Così viene fuori l’occhio grigio spalancato amorevole che da quella foto di quando avevo due anni non mi ha più lasciata, un occhio pesce, anche, assolutamente diritto, assolutamente vedente, assolutamente miope. Sopra continua il contorno ma più addolcito (uso il dito medio) e faccio e disfo e rifaccio e decido per una qualche polvere, l’ombretto dei campioncini della mamma, regali al mio femminile, certo contento nella prigione sua meritata.

Per il mio femminile i rossetti e le cremine e gli struccatutto e i fard sono come la lima nella torta. Vero, i prodotti struccanti gli interessano poco. Ma tutto l’ambaradan conseguente lo entusiasma e libera, la matita per le labbra mauve beige marron glacè amaranto vin brulè capucine, il fondotinta matt, la cipria chiara (ho la pelle delle povere bionde, fatta a capillari prepotenti e refrattaria alle terre) e poi. Una specie di base l’ho già stesa, c’era della crema idratante, so che fa moolto bene, ora faccio il quadro. Uso almeno quattro tipi di rossi e bruni, difficile sfumare bene e mettere la luce nei punti giusti, devo attenuare un inizio di doppio mento, rilassamenti della pelle mandibolare, couperose, ‘azz vedersi da vicino e con queste luci massimali, seduta sul lavandino, death singing memento mori last call.

E suonano.

Maddalena, tesoro mio, aveva nella tranquillità del suo corpo una piccola palla di neve color d’occhio e aveva sulle spalle una voglia di silenzio una voglia di rosa coperchio della sua aureola le sue mani e degli archi morbidi e cantanti spaccavano la luce. Cantava i minuti senza addormentarsi. Aprire la porta baciarla sulle guance calde e fredde dell’inverno un tutt’uno, offrirle da bere; nella grande casa inabitabile abbiamo un cognac, un  magnifico cognac francese, bella tautologia, abbiamo un  Rémy Martin.

 ” Vuto bear qualcosa? ” ” Son vegnua sensa trucarme, ho portà dei vestiti ma dime ti quel che me sta mejo” ” Te spetava da un’ora , gheto avuo problemi?” ” Son passà da Cà dei tè, la Alice la se ferma a dormir dala nona, dopo gh’è sta una serie de robe che te contarò…”  ” Tò, vegni in bagno che no ho gnancora finio” ” Che musica scolteto?” ” Senti questa che bela, 1959 dela patti smith, l’ultimo suo” “metemo battiato dopo” ” va ben, vegni in bagno”.

Nel bel mezzo di un’isola spaventosa che i suoi membri attraversano lei vive di un mondo sorpreso. La carne che si mostra ai curiosi attende là come le raccolte la caduta sulle rive. Aspettando per vederci meglio gli occhi più grandi aperti sotto il vento delle sue mani lei immagina che l’orizzonte ha per lei denudato la sua cintura.

E in bagno, nel bagno della grande casa inabitabile, Maddalena si prova le calze, io mi disegno le labbra. Una ricetta antica, prima la matita poi le dita poi il rossetto poi la carta igienica poi un altro rossetto poi la carta igienica poi la cipria poi ancora la matita poi ancora il rossetto (a scelta) poi ancora la carta igienica poi ancora la cipria e Maddalena ride, mette le scarpe sbagliate e ride, non ci crede, non ce n’è bisogno.

Bella lei! Le sue labbra sono cocomeri spaccati, guai a sporcarli, li sporchiamo solo con il Rémy Martin. Le sue labbra sono ciliegie 100% di pubblicità non ingannevole, scure come la sera che si sta facendo notte, e ribelli a disegni che non siano il suo – sto  male così- ti dice – con questo rosa sembro un’altra. Mettiamo cafè de la paix, dai.

Soltanto sul water si riesce a vedersi intere, così ogni cambio d’abito implica relativi movimenti ginnici. Io una sottospecie di tubino nero, cotone, spalle d’atleta, muscoli e pancia, poi però la camicia nera a fiori minuti gialli e aranciati e marron in vecchia lana, calze nere, ovvio è gennaio, ma lei alterna gonne lunghe spacchi a calzoni attillati senza cerniera, solo uno spillone, calzoni di Maria e ci mettiamo a sorriderne. Da qualche parte c’è sempre uno strappo che non sappiamo ricucire, che non vogliamo, ma questo diventa la parte migliore.

 Ancoracognac. Ricerca sul terzo. Lode all’inviolato.

 Davanti alla televisione accesa che non dice più niente, solo immagini che girano meno belle di noi cincette, chi ha telefonato, chi non ha telefonato, dove andare  (lo sappiamo già dove andremo; è un posto che conosciamo; è un posto che ci fa sentire sicure e padrone; è un posto dove si balla; un posto dove si recita; un posto dove c’è gente che sappiamo che fa cose e un posto dove tanti passano senza sapere, un posto dove non è ancora molto chiaro cosa può succedere, saran passate si e no due settimane e nulla può ancora essere definito. Andiamo in un posto dove, come ora, gli uomini sono erranti. Più forti dei nani abituali non si incontrano. Si racconta che si divorano. La forza della forza carcasse di conoscenze carcasse d’asini sempre erodenti nel cervello e nelle  carni siete ben temerarie nelle vostre supposizioni. Sapiente degradazione dei bianchi  al ventre a tavola tutto il materiale necessario la speranza su tutti gli occhi mette i suoi vetri tagliati il cuore non si accorge che malgrado tutto si vive mentre sulle spiagge nude un solo uomo inutilizzabile confonde ogni colore con la linea retta e mescola ogni pensiero all’immobilità insensibile della sua presenza eterna e fa il giro del mondo e fa il giro del tempo la testa prigioniera del suo corpo legato).

Appoggiate ai due divani bianchi a 90 gradi sul tappeto persiano, la stanza è piena di cose di vetro. Appoggiamo riverentemente i bicchieritulipani sopra il tavolino di cristallo annegato a luce alogena, al centro. Qualche fiore nell’imbuto di una cartina, tanto per non uscire dal rito. E tutto esce, dimenticando molte cose ma intero, lui, cosa tesoro mio si è dimenticata di fare, dove ha lasciato il cane, con chi era suo fratello, cosa ha detto suo fratello e perché suo padre l’ha fatta piangere (ha pianto anche lui, sennò non vale). Va tutto bene. Va tutto bene. Va tutto bene. Dal nostro mondo bieco ma oltremodo solare, dalla sera fatta, ricomprerò un’altra bottiglia al mio di  padre che non se ne accorgerà.

Usciamo.

Gommalacca.

La macchina è davvero un bel mondo autonomo.

Le luci della sera lo incorniciano come si deve.

E c’è una speranza, le case in costruzione davanti non la conoscono, forse la cagna nera che ho lasciato sul terrazzo ce l’ha: dovrà ritornare, ha lasciato la luce dell’entrata, quella del segno dell’acquario, lampadine messe a costellazione, tutto questo per me.

Quindi guidiamo.

Morbide all’arrivo agli stop.

Scattanti all’incrocio vuoto sono attorno a noi i silenzi rotti di provincia Verona e Maddalena, che  ha dei soldi con se, la paga di oggi, parla del suo amico dell’accademia. Ha infilato tutti i quadri nel bagagliaio, in qualche modo. Si è ribaltato il gessetto.

Fissarlo con la lacca? Non ci ha pensato. Ma sai, è uno così, fa le cose come gli vengono, la fotografia : un gruppo. Se il sole passasse, se ti muovi. Fards. Dentro, bianca e verniciata, nel tunnel. “Al tempo delle scintille stappavamo la luce.” Posteri, mentalità delle genti. La bella pittura. La prova, capirsi. La speranza delle cantaridi è una bella speranza.

Non so mai dove voglia arrivare, certo questo qui le interessa. Con lui disegna fogli fitti a cera. Rossi e blu. Ne riceverò al mio compleanno, madri e figlie e uomini fissati al pastello a cera, calcato duro sul foglio senza spazi bianchi, forse due strati. C’è bisogno di tenere assieme, e  di riempire, ma non manca la sfumatura tra i due colori, anche se non è viola. Non c’è viola. Senza netta distinzione, senza soluzione di continuità e non c’è il viola. Il rosso resta rosso, il blu blu, entrambi sfumati. Mi chiedo se il mio tesoro non conosca intimamente certe leggi di grafica complessa, certe leggi di ottica, certo.

Fattostà che procediamo verso Peschiera, statale 11, allegra prostituzione. Al distributore mi fermo per diecimila lire di benzina verde smeraldo (immagino io, mai vista quando entra, ho invece un ricordo rosso, complementare), risucchio, bottone, maniglia, tappo, osserviamo le professioniste, sembra osservino noi.

Dall’alto gambe muscoli neri troppo tacco mutande scure pizzo e pancia soda piercing all’ombelico linea alba due tette inverosimili sopra una corta maglietta bianca senza maniche, sempre due file di denti come collane di perle pescate negli oceani, gli oceani più belli, che non sarebbero così. Non abbiamo niente per lei. Sono sicura: Maddalena sta penando.

Basta: parcheggio subito lì, impertinente, superiore, cinguetto anch’io sui miei 7 centimetri e grazie al cielo che ho su una renna marron che, buona, copre il culo. Entriamo da Dimitri orecchino di brillanti, il locale vicino alla Esso, seimila se un negro vuole l’aranciata, che così non torna. Ti dice: non perché è negro, ma perché è quello che è. Poi torna. Poi torna con gli altri. Poi mi popolano il bar. Non sai mai cosa può succedere se ti fai quella clientela ed io, così vicino alle puttane.

Ma Dimitri è una persona gentile. Potrebbe essere uscito da un viaggio al termine della notte, così, indenne, culo, razzista, puro. Cèline gli parla e gli dice: da quanto tempo non ti danno direttive dall’ Alto Commissariato Regio? Lui si è dimenticato che esista, si fa per dire, lui non ha mai capito cosa ci fa in quell’africa che gli è diventata mondo, capita che gli rubino qualcosa se si allontana o se non tiene la pistola vicina al sacco a pelo così ruba prima lui. Mai sentito lamentarsi? Molti lo fanno, rivendicano atavici diritti e trattamenti impari, lui no: ce l’ha nell’anima quella condizione, è fatto così. Nessun problema. Pasolini capirebbe.

Allora si entra, c’è già uno che urla. Ha bevuto giusto, il locale è piccolo, un’intimità imbarazzante. Quanti problemi, giusto giusto, non sappiamo, ma sicuramente quel cugino e questioni di confine, o forse il bicchiere messo nel posto sbagliato, quel posto che qualcosa voleva pur dire se poi lui si incazza e allora andarci dolce dolce, non infierire, come stai? Come stai?  Maddalena ordina due Jack Daniel’s d’ufficio, teniamo una distanza intermedia che non si senta solo che non si senta invaso, c’è un’intelligenza baresca in questo, vedi poi se Sullivan c’ha mai scritto un trattato. La morosa. La morosa del biondo che ha fiutato, ora ragazza cubo della discoteca di Vicenza e tutto ciò che questo comporta. 1) elettrostimolatore la notte 2) minore frequenza al bar. Quante volte si sveglierà? Ed è vero che non lo ama più? Ha il viso a punta della deliziosa volpe, due occhi affusolati da farci un ritratto, bellina e minuta a proporzioni fasciate, sicura ed arrogante e e e  voglio vedere…ha capito il business! Guida lei la baracca, potrei giurarci, guarda in faccia nessuno, noi solo un poco perché, devo dire, non riuscirebbe a fare altrimenti. Troppo fighe.

Il sogno di Dimitri: apparecchia una scacchiera. Apertura debole (lei inizia il gioco lei non sa giocare), scopre subito una triste regina, blocca il re bianco- lui subdolo prepara l’alfiere- lei va troppo avanti, dimentica le torri dimentica i cavalli- lui tira fuori l’altro ed è padrone delle diagonali- lei mangia la cosa sbagliata, pensa ad un vantaggio- lui mangia lei e si prende il pedone.

Dimitri sa che quel pedone, se lei sapesse, sarebbe sufficiente . Basterebbe solo giocare senza fare grossi sbagli, ordinatamente. Ma lei non sa niente: le hanno fatto vedere come si muovono i pezzi ed è convinta che basterà far vagare il suo monarca per tutto il campo a passetti di uno, in tutti i sensi, vero, ma a passetti di uno : il suo re sarà il grande sopravvissuto della partita col mondo e farà dannare tutti i giudici di tutti i tornei. Poi s’incazzano quando mettono il tempo.

Il sogno di tesoro mio: vince la partita. Poi esce di corsa dal locale, prende la prima macchina, imbarca la ruandese e vanno a girarsi il basso garda. Si fermano in una vecchia casa nei campi ed una vecchia del posto le fa entrare  porgendo loro un vecchio saluto. Ma la casa sarà zucchero filato, bastoncini di liquirizia cardini e mensole, cioccolato fondente pavimento, tavolo torrone e sedie marzapane. Due belle gabbie le aspettano neanche tanto in un angolo. Come mi potevo sentire? Tanto bendidio e subito bloccata lì da questa babayaga analfabeta senza bisogno di fuoco. Ti dico che certi sogni te li puoi tenere, frega niente quello che scrivi.

Il sogno di Gertrude: vince la partita.

Questo non si scolla. Ha una sua teoria sulle campane, parte come si fanno che  è già croce e delizia, come si suonano ed in quanti e tira e ferma e ti trascinano. Gli vogliamo bene, preferiremmo fosse sul campanile. Ci si entra sempre da quella scaletta minima, di legno, di traballo, alzando la ribalta, aprendo una porticina, bevendo una bottiglietta. Su c’è scritto “BEVIMI”.

Cosicchè continuiamo a bere, magari diventiamo piccole e circuiamo la regina del dimitri. Single malt puro isole scozzesi, il mare dell’alta copre interamente le botti, dal legno intriso sprigiona sapori salmastri, il mare torna a restituire aria e diversa luce (questo solo per quelli che guardano), a berlo ti ingroppa la lingua, 1972.

Lascia stare l’acqua fredda, un bicchierino di birra. Caldo al cuore. Assicura che così sarà molto caldo il cuore; per poco. Poi ricominciare.

Non so se vale ma mi ricorda quel posto di Desenzano, il barista moro e la russa, avevano una skyline di New York, un fondo rosa shocking, uniformemente distribuiti sulle pareti, il buio giusto per tenerseli. E facevano tequila bum bum rigorosi, pacca e via e mettevano i primi Simple Minds, mettevano tristezza ma amorevolmente, 1991, forse, già. Qui non c’è musica. Solo quella, immaginaria, di queste campane. O forse c’è musica e non l’abbiamo mai sentita. Forse la musica c’era, certo ci sarebbe stata bene; chissà se l’ascoltammo.

 racconto in quattro capitoli tratto dal romanzo a rete “Rifrazioni scomposte su corpo 12″ (curatela di Guido Conforti)



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