La ricetta per la vita? Prendete una cometa, sparatela a 7 km al secondo contro un pianeta e poi lasciate raffreddare il tutto per qualche milione di anni. Non è così semplice, naturalmente. Ma un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra, dell’Università del Kent e del Lawrence Livermore National Laboratory hanno dimostrato, in uno studio su Nature Geoscience, che l’impatto tra una cometa e un pianeta può innescare alcuni dei processi chimici alla base della vita, fino a produrre quegli amminoacidi che sono, appunto, i mattoni fondamentali delle proteine e quindi del metabolismo di qualunque essere vivente.
I ricercatori, guidati da Zita Martins dell’Imperial College, non si sono accontentati di simulazioni al computer o osservazioni al telescopio, ma hanno voluto ricreare “in vitro” l’impatto di una cometa. Prima hanno creato un impasto di ghiaccio d’acqua e e semplici molecole organiche simile a quello che si pensa si trovi nel nucleo della maggior parte delle comete. Poi lo hanno messo su un proiettile e hanno usato un “cannone” ad aria compressa in dotazione all’Università del Kent per spararlo contro una superficie rocciosa a una velocità paragonabile a quella con cui una cometa può impattare su un pianeta: circa 7 km al secondo, per l’appunto. Quello che hanno verificato è che l’onda d’urto aveva rimescolato i composti organici creando le molecole di cui si compongono gli aminoacidi, mentre il calore generato dall’impatto aveva trasformato quelle molecole in aminoacidi veri e propri, per la precisione glicina e alanina (quest’ultima sia nella versione “destra” che in quella “sinistra”). L’esperimento è stato ripetuto due volte a distanza di un anno, e i ricercatori hanno fatto tutto il necessario per mantenere i campioni di ghiaccio al riparo da qualunque contaminazione di altro genere.
Il risultato rafforza l’idea che gli impatti delle comete (che si pensa abbiano portato sulla Terra la maggior parte dell’acqua che si trova negli oceani) abbiano avuto un ruolo chiave nel portare la vita sul nostro pianeta.
Fonte: Media INAF | Scritto da Nicola Nosengo