Arrivato all'ultima pagina mi sono voltato indietro: e ho capito che c'ero stato anch'io a Crosby, in questo pugno di case nello Stato del Maine, piccolo dimenticato angolo di America bagnato dall'Atlantico. C'ero stato anch'io e avevo camminato per le sue strade, passeggiato lungo il fiume, fatto la spesa al supermercato, conosciuto il farmacista e tutti gli altri.
C'ero stato anch'io in questo territorio dell'anima, in questa scacchiera di esistenze, in questa radura di sentimenti ed emozioni illuminati dallo straordinario sguardo di Elizabeth Strout, scrittrice che con Olive Kitteridge (Fazi) mi ha incantanto e commosso.
Uno dice l'America, i gialli e i noir, il pulp e il fantasy, i libri buoni per diventare film, grande saper fare al servizio di sicuri best seller. Ma l'America sempre di più per me sono scrittori come Raymond Carver, Jonathan Franzen, e ora, necessariamente, Elizabeth Strout.
Scrittori che da un microcosmo raccontano un mondo più ampio. Che entrano dentro di noi senza forzature, senza eccessi, senza vendere passioni di carta un tanto a rigo. Scrittori straordinari nell'illuminarci dall'interno quell'universo che è la famiglia, misurando i distacchi, i silenzi, le possibilità che segnano il cammino di ognuno (Le correzioni, di Jonathan Franzen, ma ora anche Olive Kitteridge); scrittori straordinari anche nel rianimare quella scrittura per racconti che fino a non troppo tempo fa pareva morta e sepolta, magari proponendoli come tasselli di un mosaico. Dall'uno all'altro, lo stesso respiro, lo stesso pulsare del sangue.
Ed è questo che ci regala qui Elizabeth Strout. Crosby, Maine, ovvero il mondo. Olive Kitteridge, professoressa di matematica in pensione, ovvero ognuno di noi: con le sue reticenze, le sue idiosincrasie, le sue occasioni perse, la sua voglia di dare un senso alle cose ricercato con ostinazione, malgrado tutto.