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…nel mio paese c’è una strada in discesa…

Creato il 04 ottobre 2011 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

Arco di Santa Domenica

Scorrano (LE), "Arco di Santa Domenica"

…nel mio paese c’é una strada in discesa, stretta, grigia, dove il sole fa capolino solo intorno a mezzogiorno, mentre nel resto del tempo se ne sta accucciato tranquillo sui muri, a riscaldare qualche pietra secolare o quel gatto sul limitare di fronte. Mio nonno ci giocava, ci è cresciuto,ci avrà fatto anche all’amore e se è andato guardandola. Mio padre mi sa che ci è solo nato. C’è tutto il sangue che scorre lento nelle mie vene in quella strada. E il mio sangue sa del calcestruzzo impastato mazzo di quelle case. C’é tutta la mia storia in quella strada. C’é tutta la storia di tutti e di tutto il sangue che scorre in tutti e che sa di calce viva e pietra leccese, in quella strada che dai giardini comunali scende sino alla porta sacra. E ci puoi trovare i ritratti di tutti quelli che ci hanno vissuto in quella strada o che ci son solo nati, tra le fessure dei mattoni in pietra calcarea che sono logorati dalla carie del tempo. Dal cancro del vento scirocco che soffia sabbia africana in eterno.
Una piccola pietra di una finta colonna su una viuzza laterale ricordava tanto una vecchia zia. Era solo mia zia, ma era zia per tutti quelli che mi conoscevano. E da bambino è molto facile far diventare tutti parenti, per abbandonarli poi da adulto. Per scordare tutto in un solo colpo di tosse o ad un solo passaggio della tramontana nemica che non ci assomiglia. E da bambino mi sorprendevo spesso fermo a riguardare a lungo quella vecchia pietra. Ma é solo un misero ricordo.
Sono nato dall’altra parte del mio paese,cresciuto per necessità in braccia diverse dallo scirocco e su nuvole diverse di questo strano occidente.

Adesso ci ripasso per quella strada solo per sentire quelle strane ninnananne delle nostre nere nonne, quelle litanie dell’anima che sanno di fatica antica e di passi ritmati infiniti, che sanno di febbre di ragno e vino nuovo. Ci ripasso ad ascoltare incantato i brusii che trasudano da quei muri di quelle bianche case, ad annusare gli odori delle salse di pomodoro fresco, che vengono fuori dalle finestre aperte, le domeniche in estate.

E poi mi fermo a parlare, sul come eravamo, sul come fugge il tempo e come tutti cercano di inseguirlo, con quelli rimasti a vivere in quella strada. Anziani baluardi alla tramontana nemica che tutto fa sparire e che tutto strappa e che fa perdere le radici anche ai ricordi. Come macchiette del tempo che era di un altro tempo o che sempre lo sarà.

E rimango qui impietrito a pensare, mentre le loro parole si fanno inquiete accuse, mentre le loro frasi si colorano dei loro racconti più antichi e più vari, seduti sull’uscio di quelle assurde pietre su vecchie sedie impagliate dalla maestria delle mani, a guardarci solo negli occhi vecchi complici di un passaggio criminale, testimoni di un qualcosa che sa di passato, che sa di essere stato e non lo sarà mai più.

A guardare la loro faccia, terra rugosa di campi appena arati, solchi algidi di aspre rughe, quasi una piressia di un malato perenne destinato alla fine estrema. Emanano antichità quei visi. Antichità greche, turche, spagnole,arabe. Poutpourri di rughe e di razza. A rincorrere quella donna disordinata e pigra che seduti ai bordi di un nulla eterno continuano ostinati a chiamarla esistenza. E chini con le mani callose di giornate passate a giornata, di settimane passati a giornata, di anni passati a giornata, estirpano erba con i fiori speronati per fare trombette, nel farne forme più strane, a regalare al fanciullo che prova a copiare quel loro unico gioco.

-“Adesso non viene più nessuno”, racconta uno di loro,”hanno fatto un paese nuovo dall’altra parte ella strada”.

- “Non viene più nessuno certo”, penso.

I ragazzi preferiscono i tranquilli giardini di cemento delle loro tranquille case multipiano, con i loro tranquilli giochi d’occidente. Qui tutto invece ricorda l’Oriente. Anche il vento.
Si arrabbia anche il più vecchio di loro che con voce flebile e stanca riesce a dire:
-“Adesso anche i miei figli non vengono più. Ormai hanno imparato a parlare in italiano”.
-“Certo, penso, avranno imparato a parlare anche in inglese credo”.

-“Ma ci siete ancora voi”, dico, “e miliardi di altre storie da raccontare e magari miliardi di storie nuove che non avete ancora raccontato a nessuno”.

-“Saranno nuove per te, amico mio”, mi risponde il più vecchio, “qui la vita va ogni giorno uguale”. Sempre uguale. E le storie si possono contare sulle dita di una mano, e sulle dita delle mani che contiamo quelli che se ne vanno tra le braccia di Dio. Anche qui la morte è l’unica certezza. L’unica verità. E i nostri cimiteri sono pieni di visi, ogni giorno di più di uomini, che conoscevo. Forse è l’unica prova, la vera prova,c he stiamo invecchiando.

- “Posso capire quello che provi”, riprende il più vecchio, “posso capire che sei anche arrabbiato con te stesso, con il fatto di sentirti impotente,di non poter cambiare nulla, e che magari sai già che non cambierà mai niente e che noi pochi rimasti saremo costretti a fonderci con queste misere pietre che ci fanno da tetto”.

Oggi è una domenica di settembre, che ancora soffia un vento freddo di tramontana, e sto pensando ai miei figli che ho lasciato a Perugia


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