Nell’autunno e nella prima fase dell’inverno 2015 non ho mai sentito l’esigenza di andare al cinema. Da tanto tempo non vedevo in tv un film seduta comodamente in poltrona. In questo momento, penso sia l’ultima forma di comunicazione utile cui mi rivolgo per sanare il tempo, i vuoti, le attese di qualcosa che non cambierà mai. Non sono mai stata una di quelle persone che si è riempita la pancia di pellicole per dimostrare agli altri la conoscenza, il fatto di essere accettati per la bravura di sapere tutto, al momento giusto, con esatta puntualità, per non cadere in fallo. Se cado, piango. amen, potrò scegliere se approfondire, continuare a fregarmene o addirittura rimanere lì a rompermi i denti e a frignare nella non onniscienza.
Da un po’ le persone che ragionano così – dire, dire, dire, ostentare, ostentare, ostentare – mi annoiano come la morte. Non c’è sostanza, esiste solo la ricerca di attenzione nel dimostrare che sono fighi e alla moda, e tutto mi appare molto banale, scarno da qualsiasi pensiero sano.
Su Sky Cinema, durante il periodo natalizio, sta girando la commedia di Francesca Archibugi intitolata Nel nome del figlio.
Ho seguito la presentazione critica di Gianni Canova che ne spiegava i rimandi. Ho accolto volentieri la partecipazione alla stesura della sceneggiatura di Francesco Piccolo, autore che mi è simpatico da sempre. Tralasciando l’ispirazione tratta da un film francese di cui non ricordo nulla, non so perché, ma ho visto in questa regia la stessa dimensione drammatica di Carnage di Roman Polanski.
Forse sarà stata la superficie intima, gli scontri verbali, le mille questioni sviluppate in pochissimi ambienti, ma il narrato, in certi momenti, mi ha irritato tantissimo. Non sopporto più la diatriba fascisti/comunisti, sono stanca delle lotte intestine di chi è molto simile nel metodo e nell’approccio. Sono stanca di vedere la solita Italia messa in piazza su temi e tempi che sembrano insormontabili, sono stana del non andare oltre, spingersi oltre, verso la maturità. Ho apprezzato tantissimo l’inserimento della figura di Micaela Ramazzotti come figlia della borgata romana, l’unica, che osserva umilmente come certa gente, praticamente simile, diversa negli ideali, si scanna nella solitudine dell’assenza di contenuti rivolti alla crescita. Ogni protagonista segnato dal proprio vissuto, anche leggero e ricco di allegria, ma ognuno pronto a prevaricare l’altro, nascondere, far finta di essere qualcuno di importante, culturalmente o economicamente, in età adulta.
Le donne sono sempre in una condizione di sottomissione rispetto agli uomini protagonisti. La mossa intelligente del film è proprio nella ricerca della posizione delle figure femminili. Il suo finale, ne è la dimostrazione plateale: una (ri)nascita che sconvolgerà le carte, nonostante un passato così noioso, ripetitivo, manipolatorio, burlone, d’impegno, ottenuto grazie alle possibilità di un padre dal cognome, dal ruolo sociale, religioso, di grande evidenza.
Soundtrack Lucio Dalla – scena madre: Top
Mi guardo una puntata di In Treatment.
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