Magazine Europa
Sì, perché - oramai incamminato sulla rapida via del ritorno - non sono capitato a Brema in un giorno qualunque. O meglio, che cosa fa di un giorno qualunque un giorno davvero qualunque? Insomma io pensavo che lo fosse, un giorno qualunque, ma quando ho attraversato il ponte sul Weser, avevo già capito dalle sciarpe che qualcosa non andava. Poi ho svoltato a sinistra bordeggiando il fiume, finché ho attraversato la strada e mi sono infilato nella celebre Böttcherstraße. E le magliette hanno alimentato il mio sospetto. Infine sono approdato nella meravigliosa Piazza del Mercato e i cori hanno confermato i presentimenti e seppellito tutte le speranze che si trattasse di un abbaglio. Di tutti i giorni qualunque in cui potevo capitare a Brema, sono capitato proprio nel giorno qualunque in cui il Werder Brema giocava in casa un preliminare di Champions League. E naturalmente non con una squadra qualunque. No. Con una squadra italiana.
Mi sono dunque ritrovato a passeggiare per il centro profumato di storia, per le vie coronate dalle mirabili architetture anseatiche, per il meraviglioso Schnoor, il quartiere originariamente abitato dei pescatori e oggi gioiellino di viuzze e piccoli, antichi edifici colorati e caratteristici (sebbene invero un po' souvenirizzati), senza poter evitare di essere scortato da questa specie di esercito disordinato, eterogeneo nell'aspetto, ma uniformemente colorato e chiassoso nei fatti che, tra una pinta e l'altra, scandiva coretti a tutto volume a favore della propria squadra, o a detrazione non tanto dell'avversario della serata, bensì dell'altra squadra della città di provenienza, di cui peraltro ovviamente non c'erano tifosi in giro. Dunque a chi diamine si rivolgevano costoro? E che gusto poteva mai esserci nel comportarsi così? Per non parlare degli autobus trasformati in gradinate, e quindi praticabili solo a rischio e pericolo di lasciarci il sistema nervoso, con i poveri abitanti locali per lo più a guardarsi intorno smarriti. E allora ho riflettuto pseudoantropologicamente sull'animale-tifosi, quest'essere simbiotico che trova la sua definizione (realizzazione?) nel gruppo, nella Folla di quelli-come-lui, i duri e puri, quelli che ci sono sempre, quelli che si fanno migliaia di chilometri con una bandiera in mano nella speranza di vedere una sfera rotolare nella rete giusta, quelli che magari ci bruciano pure lo stipendio da operaio, che si sentono di esistere solo in funzione della curva, con addosso quella maglietta lì, che quella sciarpa è più di una carta d'identità e quei colori sono più di un certificato di nascita. E allora mi sono chiesto: perché? È il bisogno dell'autosomministrazione di un'emozione preconfezionata, nell'impossibilità (per incapacità, pigrizia, mancanza di coraggio...) di poterla provare in proprio, la ricerca di una catarsi collettiva alle nevrosi ricorrenti del lato oscuro dell'essere umano, o il bisogno di raggiungere un'agnizione identitaria mai trovata altrove?
Eppure, malgrado il casino generalizzato e la difficoltà un po' irritante di scattare fotografie senza tifosi fuori giri sullo sfondo, tutto questo non è riuscito a infrangermi la bellezza di una città ricca di fascino e di calore, come non mi era capitato finora di trovare durante questo lungo percorso. In poche ore di permanenza, vi ho respirato un'atmosfera di maggior apertura, creatività, multiformità, cosmopolitismo, che altrove in Germania - persino più che a Berlino -, e questo l'ho attribuito forse al suo importante porto fluviale (il secondo della Germania dopo Amburgo, che però non ho visitato), che nel corso dei secoli ha senza dubbio favorito lo scambio di merci, ma anche l'incontro di pelli, gesti, colori, abiti, lingue e pensieri. Oppure no. Magari è stato solo merito dei tifosi.
/continua
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