Tutto ha inizio da un’immagine bucolica. C’è un prato e un boschetto. Ci sono delle comuni pecore che pascolano: animali tranquilli, pasciuti masticatori di erba dagli occhi vitrei. Come in tutte le storie e le famiglie che si rispettino, c’è una pecora nera. Anzi a guardarla bene è bianca e ha una frazione del pelo a forma di stella marrone. La pecora in questione si è smarrita. Persa. E c’è un uomo che è stato ingaggiato per cercarla perché quella pecora è pericolosa, molto. Ha un qualche potere malvagio che riesce a cambiare la vita delle persone. Il romanzo in questione risale al 1982, è il terzo di Murakami Haruki e per molto tempo è stato quasi introvabile in Italia: edito da Einaudi, Nel segno della pecora è stato tradotto dal giapponese da Antonietta Pastore. Chi conosce Murakami Haruki sa quanto lo scrittore nipponico ami le pecore e come inserisca questi ovini in quasi tutti i suoi libri, soprattutto i primi. C’è quindi da chiedersi cosa ha di diverso e speciale questo dagli altri. Nulla di base, è “solo” un perfetto concentrato murakaniano. I protagonisti di Nel segno della pecora sono descritti con la consueta dovizia di particolari, ragazze dalla sensibilità straordinaria quasi magica si intersecano a personaggi ossessionati da avvenimenti che hanno cambiato radicalmente la loro vita. Tinte noir, che sfumano sul giallo ma che non scadono mai nel banale. Temporalità spesso sfasata, flashback in abbondanza, e una sorta di immobilità quasi soffocante. Un’attesa quotidiana lunga metà del libro che accresce la curiosità del lettore, accompagnatore invisibile del protagonista nel suo epilogo finale.

Dormire, cucinare, bere, pulire, azioni quotidiane che collocate in un contesto di isolamento – come quello di uno chalet in montagna lontano dal mondo dove il protagonista è relegato – assumono connotati carichi di significato. Sullo sfondo di un Giappone fiabesco percepiamo l’immancabile sensazione di attraversare lo specchio dell’onirico, di galleggiare in un’altra realtà. In questo, più che in altri suoi libri è sottolineato il malessere del protagonista, il suo sentirsi come disadattato e in “ritardo” rispetto al mondo che continua vorticosamente a ruotargli intorno. I protagonisti di Murakami sono tutti così, persone apparentemente comuni che vivono giornate piatte e inutili, che non riescono a far durare una relazione amorosa, nostalgici ascoltatori di musica datata, bevitori per ammazzare il tempo e annebbiare la mente. Eroi sconfitti in partenza nella vita, ma tutti vincitori nel sogno. «So di dire una cosa strana, ma è come se non vivessi nel presente, come se non fossi me stesso e ora mi ritrovassi in questo luogo. Ho sempre questa sensazione. Solo dopo molto tempo riesco a collegare gli eventi tra loro. Sono dieci anni che vado avanti così». Perla di saggezza all’orientale che solo chi riesce a staccarsi dallo scorrere lineare degli eventi, può capire.
Per gli addetti ai lavori, una piccola chicca: il misterioso e ricorrente Hotel del Delfino fa qui il suo primo ingresso, per poi alloggiare altri visitatori in Dance dance dance e ne L’uccello che girava le viti del mondo!
