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«- Cosa ti ha chiesto la Pecora?
- Tutto. Tutto quello che avevo. Il mio corpo, i miei ricordi, le mie contraddizioni, la mia stessa debolezza… è questo che le piace. (…)
- E in cambio cosa ti offriva?
- Qualcosa di tanto bello che era sprecato per me. (…)
Era come finire in un crogiolo che inghiottiva ogni cosa. Bello da impazzire, ma maledettamente vizioso. Una volta aspirati lì dentro, si perde tutto. La volontà, la scala dei valori, l’emozione, la sofferenza, ogni cosa… È una forza paragonabile a quella che un giorno ha dato origine a ogni forma di vita.
- tu però alla fine l’hai respinta. (…)
- Preferivo la mia debolezza. La mia tristezza e la mia capacità di soffrire. La luce dell’estate, l’odore del vento, il verso delle cicale. Sono queste le cose che mi piacciono, non ci posso fare niente. Come bere una birra con te…»
Chiunque abbia letto qualcosa di Murakami, può senz’altro affermare, che adiacente, come un’altra miriade di scrittori, o lo si ama, o lo si odia. È quasi impossibile, e ammettendo che impossibilità come parola sia un fallace scherzo retorico della lingua, riuscire a scovare una via di mezzo, una sfumatura di grigio. Purtroppo, o lo si vede bianco o nero. Forse è un difetto, ma a me piace pensare che proprio questo scandire, come la tastiera di una vecchia Korg nel garage della nonna con l’Halzeimer, fa si che certi autori, contemporanei e non, irriverenti, innovatori e innovativi, vengano così tanto apprezzati e alle volte fregiati col grande mantello di Geni. Per chi è un amante della letteratura giapponese, la ripubblicazione da parte di Einaudi di Nel segno della pecora di Murakami Haruki è stato senza dubbio un evento imperdibile.
Il terzo romanzo dello scrittore giapponese, infatti, pubblicato per la prima volta nel 1982, da anni era fuori catalogo, irrecuperabile, praticamente scomparso.
Inserito nell’albo de La letteratura Giapponese, per moltissimi versi si distacca parecchio dai contemporanei scrittori del Levante. Uno stile senz’altro irriverente, senza peli sulla lingua, parecchio ermetico, ma asciutto. Non si perde in digressioni o descrizioni chissà quanto italiane come potrebbe fare un grande come Eco, e come ha fatto ai tempi Proust, per esempio parlando dell’imenottero di Fabre, passo ampiamente dibattuto da Baricco in una lezione al Palladium a Roma. E si distacca fortunatamente, oserei dire, anche da tutta quella letteratura femminil-borderline alla Banana Yoshimoto, in cui l’unico intento pare quello di dover a tutti i costi vendere a questo dannato pubblico contemporaneo fatto di alternativismi e istinti suicidi, un mix di suicidio ottocentesco, devianze sessuali liberalizzate come il pane, e l’acqua agli elefanti, cavalcando un’onda di marketing che ha visto negli anni Sessanta un grande e grave inizio per tutta una produzione letteraria beat(down) praticamente inconsistente e senza spina dorsale. Murakami, è uno di quei contemporanei nato per diventare un classico ma che purtroppo, per ragioni evidentissime non lo diventerà mai, anche se qualcuno ci crede, ci spera, e molti lo dicono.
Murakami, come avrebbe potuto dire un Maurice Merleau-Ponty, sarebbe un pittore. Un pedagogo e un pittore. I suoi romanzi, e ancor di più i suoi racconti, sono delle forti tele pittoriche, che, iniziano in un modo, ti portano in un mondo che apparentemente non sembra centrare molto, finchè non ti rendi conto che in realtà basta girare l’angolo per notare di essere al punto di partenza. E allora sì che esclami: Ma?!
Ti rendi conto che non hai viaggiato molto fisicamente, e che tutto il suo tour non è stato altro che un viaggio mentale, nemmeno tanto condizionato, perchè, diciamolo, è un uomo di una cultura esorbitante che però, a differenza dei Grandi, non ostenta alcunchè, ma tu lo comprendi, e non perchè sia lui a dirlo, ma perchè riesce con una sublime ed elegante facilità, a portarti dove lui vuole. Ma in fin dei conti, ti lascia sempre di fronte ad una porta socchiusa. Non ti dice di attraversarla, non ti dice di tornare indietro. Ti lascia lì. E forse per quello molte volte ti lascia con l’amaro in bocca, e vorresti avere pronto, lì, sul comodino, di fianco alla tua lucina, il suo biglietto da visita, per chiamarlo, anche alle tre di notte e urlargli: “Ehi tu! Ma cosa hai combinato? E adesso?”
Una prosa asciutta, precisa, fatta di frasi brevi che cercano, loro malgrado, di spiegare l’inspiegabile. È questa la dote principale di Murakami, sconfinare nel mistico senza un linguaggio esoterico, ma al contrario, accessibile a chiunque.
Sono opere in grado di farti provare esperienze sensoriali a 360 gradi. C’è musica, ci sono sapori, il tempo è scandito sempre, e ti porta per mano per tutta la narrazione, non contrasta i lettori, potete sentire dolore, e perfino piangere. Piangere con poche parole, inconsciamente. Non è un drammaturgo né un tragediografo anche se ad un’intervista che ora bene non ricordo precisamente, mi rimase impressa una frase che ci disse sorridendo.
Immaginate un uomo anziano sorridervi e dirvi.
“Io non scrivo mai di gente triste.”
Un eufemismo a dir poco didascalico per descrivere appieno tutto il suo lavoro come scrittore.
Lui è così. E così, o lo si ama o lo si odia.
Personalmente ho letto tutte le sue opere, pubblicate e non, dalla prima all’ultima, e posso affermare con sacra incoscienza, e efferata e passionale timidezza, di iniziare con Nel segno della Pecora, per poi passare a rassegna tutte le sue raccolte di racconti, dando molto spazio a Tutti i figli di Dio danzano. Infine gettatevi sulle sue colonne portanti, Tokyo Blues, e Kafka sulla spiaggia.
Il signor Haruki è semplicemente un poeta che scrive in prosa sogni che cercano, e ci riescono, a spiegare, che alla fine, il mondo, è un bel posto dove vivere. E anche parecchio strano.