Nel grande prato di Thundikel pieno di tende, sembra di essere in un villaggio. Gente che canta, prepara pranzi collettivi, bambini che giocano. Sono migliaia di persone che sperano che le scosse cessino e che siano dichiarate agibili le loro case. Se no è un problema, come ricostruirle, dove andare a vivere, forse migrare, dove trovare i soldi e quanto durerà questa sistemazione provvisoria. “Speriamo di non rimanere per anni in qualche alloggio provvisorio, come è successo a Haiti” spera Ram Thuladar, impiegato al ministero delle finanze, dove si lavora (pochissimo) nelle tende.
Per i cittadini della capitale i problemi saranno peggiori nel medio termine rispetto a quelli dei villaggi. Sulle colline sono abituati alla fatica, a veder morire il bufalo con perdita di reddito, a fare prestiti dagli usurai se il monsone è debole o un parente ha deciso di migrare nel Dubai. Se il campo non è crollato (o non crollerà con le prossime piogge) riso o mais ci sono. Le scorte, magari appena sufficienti, sono recuperate, qualche soldo arriva dai parenti che lavorano all’estero. Nei villaggi già si lavora per rimettere in piedi le case, letteralmente, mattone su mattone.
Per l’affaticato governo nepalese rimane, dunque, prioritario dare un futuro abitativo a queste persone. La forma più semplice sarebbe un prestito o un contributo per la ricostruzione e accelerare i lavori di controllo delle abitazioni e di demolizione (dato il pericolo in caso di pioggia) di quelle pericolanti. Un lavoro immenso sparso, oltre che nella capitale, in centinaia di villaggi, molti dei quali raggiungibili solo dopo ore di cammino a piedi.
Chi dovrebbe gestire i fondi per migliaia di microinterventi (case, sementi, animali, etc.) dovrebbero essere le istuzioni locali, che, in Nepal, sono articolati in Distretto (DAO) e in villaggi (VDC) e in aree metropolitane per le città più grandi (fra cui Kathmandu e Pokhara). Tutti gli organi elettivi di queste istituzioni non esistono a causa del blocco del varo della nuova costituzione post-conflitto civile. Operano i funzionari distrettuali e i segretari dei VDC (spesso assenti perchè provenienti da aree distanti rispetto a quella di lavoro) che sarebbero i nostri comuni. Nel vuoto istituzionale funzionano, più o meno, tante organizzazioni comunitarie. Per esempio, molto semplicemente, a Kavre nel Thimal, nei progetti fatti con CCD Nepal e Salam (che è nato lì), c’era un sostegno alle famiglie con reddito più basso. S’acquistava un bufalo (capitale a disposizione per emergenze, latte per i bambini o per vendere) concedendo un prestito. Chi si occupava di scegliere le famiglie, di seguire i pagamenti, di intascare i bassi interesse (da utilizzare per la scuola) erano i Comitati Scolastici (formati da insegnanti e genitori) che, di norma, coprono un Ward (gruppo di case/ quartiere). Questa operazione ha coinvolto oltre 200 famiglie e ha funzionato perché la restituzione del prestito permetteva ad un altra famiglia di accedervi e vi era, perciò, un controllo sociale. Anche Kathmandu è divisa in ward, anche lì (almeno nei quartieri più vecchi) ci sono organizzazione comunitarie; forse è un più complesso la situazione rispetto ai villaggi, ma il loro sviluppo sarebbe positivo per ogni iniziativa di ricostruzione e sviluppo. E che lo stato pensi alle infrastrutture (strade, ponti, posti sanitari) distrutti e consenta alle energie positive (giovani, gruppi sociali) mosse durante la tragedia di gestire gli aiuti alle persone e alle comunità.
L’incubo di tutti è che i soldi siano spesi mali, finiscano (come sempre) nelle tasche di pochi, che si viva per anni in tende o catapecchie. L’esempio di Haiti è lo spettro che si aggira. Miliardi di euro (dei tax payers) spesi con scarsi risultati in proporzione all’investimento. E lì, l’industria dell’assistenza (grandi ONG, Nazioni Unite, ha avuto campo libero, schiacciando il fragile governo.
Non per niente Nixon Boumba (haitiano e impegnato nella ricostruzione), scrisse sul Washington Post, proprio dopo il terremoto nepalese, il titolo è significativo “How not to rebuild Nepal”.
I watched with the rest of the world as images emerged in the wake of Nepal’s violent earthquake: the dusty faces of survivors, bloodied bodies, the ruined historic buildings. It reminded me of the devastation I witnessed after the earthquake in my homeland, Haiti, five years ago — and it made me worry about what will come next in Nepal. Soon the people of Nepal, with the help of international donors, will begin the rebuilding process. They will face some of the same challenges that we faced in Haiti — and I hope that they will be able to avoid the grave mistakes made by Haitians and by the well-intentioned donors who came to our aid.
There were two disasters in Haiti: the earthquake, and then the humanitarian crisis that followed. More than $10 billion in foreign aid still hasn’t enabled our country to recover from this disaster. In the hope that Nepal will learn from our experience, here are five lessons for effective and just disaster relief.
Most aid projects in Haiti promised “community participation,” yet most failed to truly include local people. What happened with housing provides a clear example. Many aid groups insisted on moving earthquake survivors who were living under tarps into “transitional shelters.” They ignored the objections of Haitians, who feared the flimsy plywood structures — prone to leaks and collapse — would become their permanent homes. Aid groups spent more than $500 million on these transitional shelters,” but have built less than 9,000 new long-term houses. Tragically, yesterday’s “temporary” shelters have become today’s permanent slums.
Of every dollar given to the earthquake response in Haiti, less than a penny went to Haitian organizations.