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Nepal: storie di migranti

Creato il 28 agosto 2015 da Cren

migration

Non si erano mai visti, da anni, tanti giovani  nei villaggi delle colline, lasciate a donne,  vecchi e bambini. Negli ultimi 10 anni tantissimi sono migrati  (oltre 2 milioni). Magar, Tamang, Gurung, stanchi di vivere con poco, senza opportunità fra i campi faticosamente coltivati delle colline terrazzate del Nepal centrale. Proprio la zona più colpita dal terremoto. Almeno il 35% delle famiglie dei villaggi ha un parente all’estero.

Sono tornati per trovare i genitori dai paesi in cui lavorano come schiavi per 500 dollari al  mese. (Emirati e Malesia in gran parte). Sono andati , nei giorni successivi al terremoto, nei villaggi in jeep, camion, pullman stracarichi, in moto. A volte portano tende e teloni, sacchi di riso e noodles, aiutano a spostare macerie, mettere puntelli  alle case di mattoni e argilla.

Altri non sono tornati per non   perdere il salario e il costo del biglietto aereo, come il marito di Sanjeeta Lama, una donna forte del  Timal, che alleva i suoi figli, coltiva i campi, paga i debiti fatti per far migrare il marito. Qualche parente è salito per aiutarla a recuperare le cose nella sua casa inclinata, salvare lo stock dei raccolti e i semi per le future piantagioni. Si dormiva in tenda, con i bambini e i vicini di casa. Poi grazie alle yasta di Takecare Nepal è stato costruito un rifugio in cui vivere e stoccare il mais.

Sanjeeta è,  nei limiti fortunata, la sua casa può essere riparata, il bufalo e le galline sono sopravvissuti,  mais e semi sono salvi. Nel Timal non manca l’acqua. Sotto il villaggio scorre il fiume Sun Kosi, con un po di fatica l’acqua è portata su.

La sua storia è simili a quella di tante donne che sono sole, nei villaggi a curare bambini campi e animali. Tante di queste donne devono pagare il debito all’agenzia che ha procurato visti e permessi al marito o l figlio.

I dati ufficiali raccontano di 500.000 nepalesi che lavorano in Malesia, 500.000 negli Emirati, un altro milione sparso per il resto del mondo. Incalcolabile il numero dei migranti in India dove le frontiere aperte impediscono ogni conteggio. Incalcolabile il numero dei migranti clandestini. Si ritiene, in assenza di dati precisi, che circa il 15% del Nepal sia all’estero (2.500.000 persone) e, un altro 10% sia piombato, nell’ultimo decennio, a Kathmandu dando il colpo finale all’equilibrio sociale ed urbanistico della capitale. Tutti vengono dai villaggi, in gran parte da quelli delle colline, con conseguenze sociali ed ecologiche negative anche lì.

Il povero Rajesh non ce la fa più, moglie tre figli, laureato, 35 anni vuole scappare via dal Nepal e come lui tanti altri giovani della middle-class di Kathmandu.

Eppure a Rajesh non andava malissimo, lavorava per una INGO, buon lavoro e buon salario (Nrs. 30.000\ca.€ 300 al mese), un sistema di previdenza sociale e malattia per i dipendenti e le famiglie e, dunque, assolutamente privilegiato rispetto ad altri settori. Ma nel momento in cui i fondi dall’estero sono diminuiti è stato licenziato in tronco, alla faccia dei diritti sindacali e del lavoro.

Oltre la perdita del lavoro è, anche, Kathmandu che gli sta stretta. Mi elenca i noti problemi: non c’è benzina, gas e cherosene (per cucinare), l’energia elettrica è tagliata per sei ore al giorno, i costanti bhanda (scioperi) e julus (manifestazioni) impediscono di muoversi e di lavorare, se, come probabile, la INGO fallisce, non ci sono prospettive di lavoro; affitto, cibo e scuola portano via il 90% del salario. Ma sopratutto non vede prospettive, non riesce ad immaginare il Nepal fuori dal costante casino che blocca tutto da  anni, come tanti ha perso speranza nel suo paese. Mi dice, prima l’instabilità politica (11 governi in 10 anni), poi il conflitto, la rivoluzione del 2006, l’estenuante discussione sulla costituzione, scioperi e violenze.

Stessa storia per molti medici, laureati, esperti informatici, professori che fuggono dal paese, grazie ai network professionali e famigliari e trovano buone occasioni in occidente o in India, svuotando il Nepal di competenze e opportunità. Quando non emigrano loro spediscono i figli studiare all’estero.

Questi, come Rajesh, sono i privilegiati conoscono l’inglese, hanno un network di conoscenze, qualche soldo, una cultura. Poi ci sono gli altri (circa 10.000 al giorno) che lasciano i villaggi, le famiglie e il contesto sociale in cui sono sempre vissuti per l’avventura. Centinaia di migliaia sono finiti in India attraversando i confini aperti senza problemi, chi vuole andare da qualche altra parte deve faticare mesi per ottenere un passaporto, il contratto di lavoro e il visto.

Ogni tanto fuori dall’ambasciata americana di Kathmandu bivaccano intere famiglie in attesa di una green card o per protestare perché non concessa. Le agenzie di lavoro, cresciute come funghi e senza controlli, smerciano gli esseri umani negli Emirati, Malesia, Filippine, Giappone. Le tariffe per visti e permessi arrivano fino a 200.000 rupie (€2000 circa), quando per molti paesi il costo reale di visti e permessi è solo di euro 100; le truffe non si contano e, ogni tanto, gruppi di nepalesi con visti e contratti fasulli sono abbandonati negli aeroporti in attesa che la famiglia faccia un altro prestito ad usura, per pagare il biglietto di ritorno. Tornati a Kathmandu distruggono l’agenzia poco onesta. Le irregolarità e le truffe sono tante che, il governo ha sospeso per il mese d’agosto l’attività di tutte le agenzie.

Nel passato i nepalesi andavano a Hong Kong, Singapore, India per lavorare come poliziotti, militari o nella security (gurkha), nelle piantagioni di tè dell’Assam, nelle famiglie di Dheli o Bangalore nei “dance bar” più scadenti di Sonarchi o Golpitha (le sex aerea di Calcutta e Bombay). Fino al 1990, per ottenere il passaporto bisognava conoscere mezzo governo del Nepal e pagare suntuose tangenti. Dopo, con la “democrazia” e la globalizzazione, è diventato più facile spostarsi e la fuga è diventata irrefrenabile.

Nei villaggi circa il 35% delle famiglie ha un membro che è andato all’estero a cercare fortuna e quando torna con un cellullare, un lettore di DVD portatile, una macchina fotografica digitale invoglia altri giovani alla partenza. If he can earn such money, why not me? But lured by dalals (agents), or by returning migrants sharing their experiences, these boys inevitably do not understand the real economic and psychological price they will have to pay in bidesh (estero), mi racconta un giornalista nepalese.

Ma, più che per le sirene del consumo, è la mancanza di opportunità e di sviluppo personale che fa scappare la gente dai villaggi (che formano il 70% del Nepal), dove spesso non vi è neanche una strada carrabile, una scuola secondaria, servizi sanitari, elettricità. Fermarsi lì significherebbe fare il contadino per sempre o correre il rischio che un monsone troppo forte o troppo debole distrugga il raccolto, che l’usuraio porti via la terra, e che i pochi soldi racimolati volino via per la dote di una figlia\sorella. Poco si sta facendo per migliorare la vita nei villaggi e dare opportunità alla gente che li abita e il successo durante il conflitto ed elettorale dei maoisti è, così. spiegato. Gruppi di ragazzi, i futuri lahure (dai vecchi migranti a Lahore), si raggruppano, timidi e impauriti, nella aeroporto. Tutti con un cappellino colorato dell’agenzia di collocamento e una grossa Tika rossa sulla fonte, a proteggerli nelle “terre impure”.

Oggi una delle mete più frequentate è Doha (in genere gli Emirati) dove stanno costruendo grattacieli, fabbriche, piste di sci, stadi del mondiale. Nello stesso aeroporto la maggior parte dei camerieri nei bar è nepalese e, può essere il primo incontro del turista che viene da occidente. Solo nel Qatar vivono oltre 300.000 nepalesi che lavorano nelle costruzioni, come domestici, commessi e baristi e sono considerati poco più degli intoccabili in India. Molti abitano fuori dalla città nei campi fatti da una moltitudine di casette di due piani dove vivono in sei per stanza. Quando sono in festa mangiano nei ristoranti nepalesi in città e s’incontrano a Nepali Chowk per parlare, comprare merce e giornali importati dal Nepal. Quando risparmiano qualche soldo, dopo aver spedito gran parte alla famiglia, si comprano una bottiglia di liquore locale ( ca. 1 settimana di salario) e lo scolano in compagnia dei colleghi dello stesso villaggio o gruppo etnico o comprano un lettore di DVD e si annichiliscono con i film di Bollywood. Ogni anno circa 160 nepalesi muoiono solo a nel Qatar per incidenti sul lavoro. Il salario medio è € 600 al mese (+ vitto e alloggio).

Nel 2008 è stato siglato un accordo fra Nepal e Qatar per limitari i diritti assoluti dello sponsor (padrone, kafil), migliorare le condizioni di vita e garantire l’accesso ai diritti fondamentali dei migranti (che possono essere espulsi in ogni momento su volere del padrone). In alcuni campi (quelli delle multinazionali occidentali) qualche miglioramento è avvenuto. Quando le condizioni diventano insopportabili esplodono violenti tumulti come lo scorso novembre a Dubai. Malgrado questo accordo, in questo mercato di esseri umani, le ambasciate nepalesi, gli emigranti e neppure il governo ha nessun potere.

Nella generalità dei casi il sogni di comprare una casa o della terra al villaggio, di mandare a studiare i figli a Kathmandu, di assicurare una dote alla figlia si avvera, con immense fatiche e sofferenze e dopo almeno 10 mesi di lavoro per ripagare il prestito per la partenza. Come i loro avi quando andavano a combattere per gli stranieri o coltivare i campi degli inglesi o degli indiani, quando i migranti tornano ai villaggi vestiti come occidentali poveri e con una cinepresa digitale sono eroi, raccontano storie e trasferiscono nuove idee e suggestioni.

Dhane torna a Thulo Parsel, remoto villaggio nel Distretto di Kavre, dopo due anni di lavoro in Malesia. Finalmente può mangiare la polenta (dido) con verdure e un bel pollastro. Alla famiglia racconta storie che qui sono fantastiche, tunnel per le macchine, grattacieli, scalemobili, il mare, le navi. Fa vedere con orgoglio a parenti e amici le foto della sua casa e del suo lavoro. Chi è rimasto lì (le donne) ha curato il campo, venduto il mais, raccolto l’acqua e la legna, dimentica per qualche serata le fatiche durissime e l’attesa del suo ritorno. Non distante a Chapakori, Nirmala e i suoi tre figli sono stati abbandonati dal marito che si è ricostruito una vita nelle Filippine, non ha più inviato soldi, pagato il debito con l’usuraio e la famiglia ha dovuto vendere i pochi ropani di terra con i quali sopravvivevano. I suoceri, malvolentieri, l’hanno accolta, i figli non possono più studiare.

Basterebbe stare per qualche giorno in un villaggio e vedere che per comprare cherosene, sale, tè, e altri generi alimentari non agricoli una famiglia spende in media 500/600 euro all’anno annue a cui bisogna aggiungere sementi e materiale agricolo, animali (altri 400 senza disgrazie), educazione (nelle scuole primarie ca. 50 euro a figlio nelle primarie), più qualche vestito, medicina, qualche spostamento in città. Ballano oltre 1500/2000 euro l’anno  che nei villaggi li hanno visti solo gli usurai e qualche fortunato.


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