Sotto le strade di Londra c’è un mondo che la maggior parte delle persone non si sognerebbero mai di immaginare. Una città di mostri e di santi, assassini e di angeli, in cui i topi parlano e pallide ragazze indossano velluto nero. Richard Mayhew è un giovane come tutti gli altri, trasferitosi nella Capitale dalla provincia scozzese e la cui unica eccentricità è collezionare piccoli troll di plastica dai capelli fluorescenti. Ha una vita normale, un lavoro rassicurantemente noioso, una fidanzata bella, ricca e dispotica la cui missione nella vita è fare di lui l’uomo adatto a lei, quindi sposabile. Ma un solo atto di gentilezza – soccorrere una ragazza ferita che risponde al nome di Porta – lo catapulta fuori dalla sua vita sicura e prevedibile e in un mondo sotterraneo sotto le strade di Londra che è allo stesso tempo stranamente familiare eppure assolutamente bizzarro. Una Londra fatta di ombre, in cui il famigliare annuncio della Tube ‘Mind the Gap‘ assume un nuovo significato, in quanto gli abitanti di questo regno oscuro sono coloro che sono caduti attraverso le fessure nella società, i diseredati, i senzatetto. Qui Richard incontra il Conte di Earls Court, l’anziano Old Bailey e il fabbro Hammersmith, affronta un calvario pericoloso per mano dei Frati Neri di Black Friars, si trova faccia a faccia con Grande Bestia di Londra, e incontra un angelo chiamato Islington. Insieme alla misteriosa ragazza di nome Porta e dei suoi compagni, il Marchese di Carabas e la guardia del corpo, Hunter, Richard (che vuole solo tornare a casa alla sua vecchia vita a Londra di Sopra) si imbarca in una straordinaria missione per sfuggire alle grinfie dei diabolici assassini Croup e Vandemar e per scoprire chi ha ordinato loro di uccidere la famiglia di lei…
Ogni volta che prendo in mano questo libro – che sia per leggerlo, rileggerlo o semplicemente spolveralo – mi viene da ripensare ad un’assolata mattina del Maggio 2003 quando sono capitata in Sala Borsa per un caffè ed un saluto al mio amico Marco. Lo faccio ogni volta che posso quando torno a Bologna, anche se non abbastanza di frequente come meriterebbe – visto che è uno dei (pochi) grandi amici che mi porto appresso dal tempo dell’Università. Ma lui non era alla sua sua scrivania alla biblioteca ragazzi, o al prestito, bensì su un palco nella Piazza Coperta dove era in corso una conferenza e dove, con un microfono in mano, il mio sorprendente amico si muoveva con la scioltezza di un veterano presentatore, traducendo dall’italiano all’inglese (e viceversa) la girandola di domande e risposte che passava tra il pubblico e l’ospite (uh!) anglosassone. Ospite anglosassone che, a giudicare dalla marea di grandi e piccini presenti, doveva essere anche molto popolare.
Quando, alla fine del talk, mi ha visto, Marco è sceso dal palco e dopo esserci scambiati gli entusiasti convenevoli che ci scambiamo di solito quando non ci vediamo per un po’, mi ha indicato il personaggio sul palco, che data la sua eccitazione evidentemente era (a mia insaputa) molto famoso. “È Neil Gaiman! Vieni che te lo presento, così gli parli in inglese!” Panico. Ricordo di aver puntato i piedi, piagnucolando un disperato: “Ma non so neppure chi sia, che cosa gli dico??” Che già mi viene l’ansia quando quando mi trovo in compagnia di sconosciuti, se poi si tratta di famosi scrittori di fantasy a me sconosciuti, che il fantasy è un genere che non leggo, è una vera tragedia. Mi si bloccano le corde vocali. Muta. Uh!Così non mi feci presentare Neil Gaiman, ma promisi a Marco che avrei letto qualcosa. “Nessun Dove”, fu il pronto consiglio. E visto che Marco non è solo un bibliotecario molto competente, ma è soprattutto un lettore appassionato – il genere che sa cosa può piacere alla gente ancor prima che la gente stessa lo sappia – ho dovutamente preso nota del titolo e l’ho aggiunto alla mia lunghissima lista dei libri da leggere. Quando alla fine ci sono arrivata a leggerlo Neverwhere, era il 2004, essendo prima incappata per puro caso in un altro libro che lo stesso Neil Gaiman (che ora che sapevo chi era notavo il nome) aveva scritto a quattro mani con Terry Pratchett, dal titolo The Good Omen (in italiano tradotto con Buona Apocalisse a Tutti) regalatomi da uno dei miei studenti inglesi e che divorai con gusto pur capendo metà dei riferimenti riferimenti culturali (perché tanto odio per Milton Keynes, mi chiedevo… prima di vedere Milton Keynes…). E se il fantasy continua a non essere uno dei miei generi preferiti, mi ritrovo periodicamente a rileggere sia The Good Omen che Neverwhere che certi libri sono come certi vini: diventano migliori con l’età. O, nel mio caso, con l’allungarsi della mia permanenza nella Capitale e l’apprendimento della lingua, il che è la stessa cosa… ;)
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